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sabato 31 luglio 2010

IL VERISMO E GIOVANNI VERGA

- Dal Naturalismo in Francia al Verismo in Italia -

La letteratura europea, a partire dal 1850, è caratterizzata dalla diffusione del movimento chiamato Naturalismo, che sorge in Francia e ha come teorico e maestro Emile Zola.
Egli fissa i principi del cosiddetto romanzo sperimentale. Infatti, se le opere della narrativa tradizionale erano interamente costruite dalla mente dell’autore, il nuovo romanzo deve porsi come documento oggettivo in cui l’autore tende a scomparire. Lo stesso Zola definisce il Naturalismo come “il ritorno alla natura”, cioè il ritorno alla realtà dopo il predominio dell’idea nell’età romantica. Questo ritorno alla natura comporta grande attenzione verso gli aspetti più umili del reale. Per questo il lessico e lo stile ricalcano la realtà, spesso tramite l’uso delle lingue dialettali. A calcare la scena letteraria è la plebe parigina, i minatori, il proletariato, le cui vicende sono riportate al fine di evidenziare gli aspetti negativi della società. Infatti Zola non è solo il romanziere realista, ma anche lo scrittore sociale  che lotta contro le pagine del suo tempo in nome del progresso e dell’umanità.
L’opera di Zola si diffondere in Italia dai primi del 1870 e grazie alla personale rielaborazione di due intellettuali meridionali, Capuana e Verga, è tradotta in una teoria letteraria coerente ed unitaria denominata Verismo. 
Rispetto al naturalismo francese i veristi respingevano la subordinazione della letteratura all’impegno politico e civile, attenuando il concetto di scientificità dell’opera letteraria.

La tecnica narrativa
Il Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle sue opere veriste, e ciò dà origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice. Nelle sue opere l’autore si “eclissa”, si cala “nella pelle” dei personaggi, vede le cose “con i loro occhi”, e le esprime “con le loro parole”. A raccontare infatti non è il narratore “onnisciente” tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, riproduce il livello culturale, i valori, i principi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore. Il narratore si mimetizza negli stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, agli stessi principi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo.
Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, che è la prima novella verista pubblicata dal Verga (1878) e che inaugura la nuova maniera di narrare: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo”.  La logica, che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese quale era il Verga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale («malizioso e cattivo») un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela cioè una visione primitiva e superstiziosa della realtà, estranea alle categorie razionali di causa ed effetto. E tutta la vicenda è narrata da questo punto di vista: è come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo.

L’ideologia verghiana

A questo punto è inevitabile chiedersi: che cosa induce Verga a formulare questo principio dell'impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente?  Una risposta è data da Verga stesso in un passo fondamentale della Prefazione ai Vinti: “Chi osserva questo spettacolo [della “lotta per l’esistenza”] non ha il diritto di giudicarlo. Verga ritiene dunque che l’autore debba “eclissarsi” dall’opera, non debba intervenire in essa, perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta.
Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui dominata dal meccanismo della “lotta per la vita”, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia il più debole. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali, ma dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, dalla volontà di sopraffare gli altri. È questa una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società, in un tempo e in ogni luogo, e domina non solo le società umane, ma anche il mondo animale e vegetale. Come legge di natura, essa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possono dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro, né nel passato, nel ritornare a forme superate dal mondo moderno.
. La tecnica impersonale usata da Verga non è dunque frutto di una scelta casuale, ma scaturisce dalla sua visione del mondo pessimista, ed è per lui il modo più adatto per esprimerla. Proprio il pessimismo consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà. Il pessimismo non è dunque un limite della rappresentazione verghiana, ma è la condizione del suo valore conoscitivo e critico.



Il periodo preverista

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. I suoi studi superiori non sono regolari: non termina i corsi alla facoltà di legge a Catania, preferendo dedicarsi al lavoro letterario e al giornalismo politico. Convinto che per diventare uno scrittore autentico doveva liberarsi dai limiti della cultura provinciale, nel 1865 su trasferisce a Firenze. Pubblica nel 1866 “Una peccatrice”, romanzo autobiografico che con toni enfatici e melodrammatici narra la storia di un intellettuale piccolo borghese di Catania, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l’amore per la donna adorata e ne causa il suicidio. Nel 1871 termina l’opera “Storia di una capinera”, romanzo sentimentale e lacrimevole, su un amore impossibile e una monacazione forzata. A questo romanzo polemico, seguono nel 1875, i romanzi d’analisi delle passioni  mondane: “ Eros” sul progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico, corrotto da una società raffinata e vuota.

L’approdo al verismo: ”Vita dei campi”
Verga fin dai suoi primi scritti si proponeva di dipingere il vero, ma semplicemente non possedeva ancora i mezzi adatti per farlo. L’approdo al verismo non è un’inversione di tendenza, ma la conquista di mezzi concettuali e stilistici più maturi: la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità.
Sull’adozione del nuovo modello narrativo, esercita un influsso determinante Zola, in particolare “L’Assommoir”, per la sua ricostruzione di ambienti e psicologie popolari, rappresentati al di fuori di ogni idealizzazione e per il suo linguaggio che riproduceva il gergo dei sobborghi parigini.
La svolta verista, dopo “Rosso Malpelo”, prosegue con una serie di racconti raccolti nel volume “Vita dei campi” del 1880: Cavalleria Rusticana e La Lupa sono i più noti: Anche in questi racconti spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità, che consiste nell’eclissi dell’autore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare. Accanto alla scabra rappresentazione veristica e pessimistica del mondo rurale, in tali novelle si trova ancora traccia di un atteggiamento romantico, nostalgico di un mondo mitico, dominato da passioni volente  e primitive, un paradiso perduto di innocenza e autenticità che si pone in antitesi con l’artificiosità della vita borghese e cittadina. Insomma è ancora in atto nell’autore la contraddizione tra le tendenze romantiche della sua formazione e le nuove tendenze veristiche che lo inducono a riconoscere come a dominare pure il mondo rurale è la legge della lotta per la vita.Tale contraddizione è superata nei Malavoglia.

Il ciclo dei “Vinti” e  “I Malavoglia”

Parallelamente alle novelle Verga concepisce il disegno di un ciclo di romanzi, con la volontà di tracciare un quadro sociale, passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari, alla borghesia di provincia, all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin sull’evoluzione delle specie animali ed applica alla società umana: tutta la società, ad ogni livello, è dominata  da conflitti di interesse, ed il più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Verga però non si sofferma sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i vinti. Il primo romanzo del ciclo dei “Vinti” è “I Malavoglia”, del 1881 , la storia di una famiglia di pescatori siciliani. E’ il romanzo che apre il ciclo verghiano de I Vinti e che per l'esemplarità delle vicende narrate e per l'originalità della tecnica e dello stile rappresenta la migliore realizzazione della narrativa verista. Trama.Nel paesino siciliano di Acitrezza, popolato di pescatori e contadini, si svolge la storia del fatale disfacimento della famiglia dei Toscano, detti «Malavoglia», i quali possiedono una casa («la casa del nespolo») e una barca («la Provvidenza»).Il vecchio padron 'Ntoni, il patriarca della famiglia, nel tentativo di sollevarne le sorti economiche acquista a credito un carico di lupini per tentarne il commercio.Ma il naufragio della barca, e con esso la perdita del carico e la morte di Bastianazzo (figlio di padron 'Ntoni e padre di cinque figli), dà il via ad una lunga catena di disgrazie.Per pagare il debito dei lupini «la casa dei nespolo» viene venduta e così la famiglia si smembra: Luca muore in guerra (Lissa, 1866), il giovane 'Ntoni si dà al contrabbando, Lia si dà alla prostituzione ed infine padron 'Ntoni muore.  Soltanto Mena e Alessi, il quale con il suo duro lavoro riuscirà a riscattare «la casa del nespolo», si salvano dalla rovina.
Il tema della vicenda è la dolorosa esperienza di sofferenze e di lutti di una famiglia di pescatori che l'ansia del miglioramento economico porta alla dissoluzione.  L'idea che lo ispira esprime il pessimismo verghiano: per quanto gli uomini si affannino e lottino alla ricerca dei meglio, essi non possono sfuggire all'inflessibilità del destino.  A chi tenta - come i Malavoglia - di uscire dalla propria condizione è riservata una catena di miserie e di lutti. L’unico spiraglio di speranza è dato dal rispetto della sacralità dei valori atavici: per chi resta fedele ai valori della casa e della famiglia (l'«ideale dell'ostrica») e rinuncia alla lotta per il progresso esiste una possibilità di salvezza, che coincide con la rassegnazione e l'accettazione dell'immobilismo sociale.
Lingua e stile.  La novità maggiore del romanzo è l'adozione di una tecnica narrativa del tutto nuova e antiletteraria.  Verga reinterpreta il canone verista dell'impersonalità con una soluzione stilistica che gli consente di non  tradire parole e pensieri dei suoi personaggi: egli infatti scompare nella voce dei personaggi stessi o nel coro dei parlanti popolari (una voce interna al paese e alla storia) attraverso l'adozione del loro lessico, delle loro strutture sintattiche, dei loro proverbi. L'adesione al loro mondo morale risulta così totale, e da essa scaturisce l'originalità e l'espressività dello stile verghiano.
Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza. Verga non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”.
Risulta una particolare configurazione della struttura romanzesca, una costruzione bipolare. Si tratta di un romanzo corale, popolato di personaggi, senza che spicchi un protagonista. Ma questo “coro” si divide nettamente in due: da un lato si collocano i Malavoglia, e alcuni personaggi a loro collegati, che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri; dall’altro la comunità del paese, pettegola, cinica, mossa solo dall’interesse. Questo gioco di punti di vista ha una funzione importantissima. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà, disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono compresi, anzi vengono stravolti e deformati.
Nel giovane ‘Ntoni si incarnano le forze disgregatrici della modernità. Egli è uscito dall’universo del paese, ha  conosciuto la metropoli Napoli e non può più accettare l’immobilità del paese, rassegnandosi a un’esistenza di fatiche e miserie. Emblematico è il conflitto con suo nonno che rappresenta l’attaccamento ai valori tradizionali, che consente il pignoramento della casa per mantenere fede alla parola data e quindi contribuisce a causare la rovina della famiglia.
Il romanzo si chiude con la partenza di ‘Ntoni dal villaggio: il personaggio che ha messo in crisi il sistema si allontana per sempre verso la realtà e il progresso, dalle grandi città. Il suo distacco è l’addio al mondo arcaico e ne sancisce la sconfitta, la scomparsa, segnando il passaggio dal per-moderno al moderno. Il suo percorso sarà continuato dal dinamismo e dall’intraprendenza di Gesualdo, tipico esponente moderno.



Dai “Malavoglia” al “Gesualdo”

Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo dei “Vinti” passano otto anni. Nel 1883 escono le “Novelle rusticane”, che ripropongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospettiva più amara e pessimistica, ove in primo piano è il dominio dei momenti economici dell’agire umano. “Mastro don Gesualdo” esce nel 1889.
Gesualdo Motta è un muratore che, mosso dalla bramosia della ricchezza («la roba»), dopo anni di duro lavoro e di sacrifici riesce a costruirsi una notevole fortuna.
Sposatosi con Bianca Trao, discendente di una nobile famiglia in decadenza, non riesce però a farsi accettare da un mondo in cui lo colloca la sua ricchezza ma che non è il suo e che lo rifiuta.  La stessa moglie e la figlia Isabella gli negano il loro affetto.
Vittima della sua sete di denaro, è relegato dal disprezzo dei familiari nella solitudine e finisce squallidamente i suoi giorni abbandonato da tutti.
E’ la storia dell’ascesa sociale di un muratore che, con la sua intelligenza e energia instancabile, accumula enormi ricchezze, ma va incontro ad un tragico fallimento nella sfera degli affetti familiari.
Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, per cui il narratore, pur senza coincidere con unpreciso personaggio, deve essere interno al mondo rappresentato. Però nel nuovo romanzo il livello sociale di questo mondo, si è elevato rispetto ai Malavoglia: non si tratta di un ambiente popolare, di contadini, operai, pescatori, ma di una ambiente borghese ed aristocratico. Di conseguenza anche il livello del  narratore si innalza, e ciò fa sì che torni a coincidere con quello dell’autore reale. Ovviamente rimane la fedeltà al principio dell’eclissi dell’autore e quindi nessuna informazione viene data al lettore sugli antefatti, sulle storie dei personaggi.
Il Gesualdo ha invece al centro una figura di protagonista, che si stacca nettamente dallo sfondo popolato di figure. E’ infatti la storia di un individuo eccezionale, della sua ascesa e della sua caduta. La narrazione si focalizza su di lui.  Il punto di osservazione dei fatti coincide con la sua visione. Lo strumento di questa focalizzazione è il discorso indiretto libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista.
Inoltre nel Gesualdo scompare la bipolarità tra personaggi depositari dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita, che caratterizzava  Malavoglia. Il conflitto tra i due poli passa dentro un unico personaggio. Pur dedicando tutta la sua vita e tutte le sue energie alla conquista della “roba”, Gesualdo conserva in sé un bisogno di relazioni umane autentiche: ha il culto della famiglia, rispetta il padre e aiuta i fratelli, ama la moglie e la figlia, è generoso con gli altri: Ma non arriva mai fino in fondo a praticare i valori. La roba è il fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta ad essere disumano, come quando sfrutta senza pietà i suoi lavoranti. Il pessimismo di Verga è diventato assoluto, nel quadro desolato della lotta per la vita non ci sono più personaggi positivi.
Lo scrittore presenta l’accanimento del suo eroe nell’accumulare ricchezze in una luce critica e negativa, ma senza adottare un atteggiamento moralistico. La “religione della roba” è di Gesualdo, non di Verga. L’autore riconosce quanto di eroico vi è nello sforzo di Gesualdo che dimostra ferrea volontà, capacità di sacrificio personale, vivida intelligenza nel progettare, calcolare. Però Verga rappresenta soprattutto il rovescio negativo di tutto ciò: L’alienazione nella “roba”, la durezza disumana le sofferenze provocare, l’insensamento di una fatica che attira solo odio e dolore, e ha come unico sbocco la morte. La lotta per la ricchezza ha come fine il fallimento esistenziale. Gesualdo è un vincitore materialmente, ma è un vinto sul piano umano.

L’ultimo Verga

Dopo il Gesualdo, Verga lavora al terzo romanzo del ciclo “ La duchessa de Leyra”, ma il romanzo non sarà mai portato a compimento. Tra le ragioni dell’interruzione accanto all’inaridimento dell’ispirazione e alla stanchezza dello scrittore ormai vecchio, va annoverata la difficoltà di affrontare col metodo prescelto gli ambienti dell’alta società e le psicologie complesse e raffinate, e infine lo stesso logoramento dei moduli veristi
Dopo il 1903 lo scrittore si chiude in un silenzio totale. La sua vita è dedicata alla cura delle sue proprietà agricole, ed è ossessionata dalle preoccupazioni economiche. Muore nel gennaio 1922.


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