Nasce a S.Mauro di Romagna nel 1855 ed entra nel collegio dei padri Scolopi a Urbino. E’ il quarto di otto fratelli e il padre è l’amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Nel ’67 accade l’episodio che segna indelebilmente la sensibilità del piccolo Pascoli: viene assassinato il padre da ignoti, mentre ritorna a casa . Non si seppe mai chi fu l’assassino, ma il Pascoli crede di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il “cuculo”, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri. L’anno seguente muore una sorella, poi, di seguito, la madre e due fratelli. La morte della madre viene considerata dal Pascoli la tragedia maggiore, perché viene meno il nucleo familiare, il “nido”. D’ora in poi il suo proposito sarà sempre di riformare il nido originario. Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolge profondamente l’anima del Pascoli; rimane una ferita non chiusa, che si traduce in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segna il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena a cui sempre il poeta aspirerà con immutata nostalgia. L’unico rimedio al male gli appare ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini. Nello stesso tempo, nasce in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti la pace. Muore nel 1912. Viene sepolto a Castelvecchio, in una casa di campagna che dal ’95 era stata il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.Pascoli rappresenta la vera svolta della poesia italiana di fine secolo perché introduce tutta una serie di novità tematiche e stilistiche che influenzeranno i poeti di tutto il ‘900. Giustamente, quella di Pascoli è stata definita una “poesia verso il Novecento”.
LA POETICA
Il carattere dominante della poesia del Pascoli è costituito dall’evasione della realtà per rifugiarsi nel mondo dell’infanzia, un mondo rassicurante, dove l’individuo si sente isolato ma tranquillo rispetto ad una realtà che non capisce e quindi teme.
Il Pascoli esprime questa sua poetica in uno scritto del 1897 che intitola “Il fanciullino”. Egli afferma che in tutti noi c’è un fanciullo che durante l’infanzia fa sentire la sua voce, che si confonde con la nostra, mentre in età adulta la lotta per la vita impedisce di sentire la voce del fanciullo, per cui il momento veramente poetico è in definitiva quello dell’infanzia. Di fatti il fanciullo vede tutto per la prima volta, quindi con meraviglia; scopre la poesia che c’è nelle cose, queste stesse gli rivelano il loro sorriso, le loro lacrime, per cui il poeta non ha bisogno di creare nulla di nuovo, ma scopre quello che già c'è in natura. Il fanciullino è quello che parla alle bestie, agli alberi, alle nuvole e scopre le relazioni più ingegnose che vi sono tra le cose, ride e piange per ciò che sfugge ai nostri sensi, al nostro intelletto. L’atteggiamento del fanciullo gli permette di penetrare nel mistero della realtà, mistero colto non attraverso la logica, ma attraverso l’intuizione ed espresso con linguaggio non razionale ma fondato sull’analogia e sul simbolo. La poesia quindi può avere una grande utilità morale e sociale; il sentimento poetico che è in tutti gli uomini gli fa sentire fratelli nel comune dolore, pronti a deporre gli odi e le guerre. Da un lato egli concepisce la poesia come ispiratrice di amore umano, le assegna il compito di rendere gli uomini più buoni, ma il poeta non deve proporselo come fine, perché non è un oratore o un predicatore, ma ha unicamente il dono di pronunciare la parola nella quale tutti gli altri uomini si riconoscono. In definitiva il poeta è l’individuo abbastanza eccezionale che, pur essendo cresciuto, riesce ancora a dare voce al quel fanciullo che c’è in ogni uomo.L’evento centrale della sua vita, che diverrà poi materia poetica, è certamente l’uccisione del padre (di cui non fu mai trovato l’assassino) con la conseguente distruzione del, così chiamato da Pascoli “nido” familiare. A seguito di questa vicenda, la famiglia si sgretola perché anche la madre morirà di crepacuore, di lì a qualche anno, e il poeta perde quell’ambiente caldo e protettivo (da cui il nome di “nido”) che lo difendeva dalle insidie del mondo. Pascoli tentò di ricostruire il “nido” distrutto, insieme alle sorelle Ida e Maria, alle quali fu unito da un affetto morboso. Egli si ribella quando Ida si sposa, abbandonando lui e quel che restava del “nido”, e si lega con un legame ancora più forte ed esclusivo a Maria (che egli chiamava Mariù).
Il tema del “nido” costituisce uno dei veri motivi della poesia pascoliana: costantemente il poeta lo ricorda, lo rimpiange, tanto che il critico Giorgio Barberi Squarotti parla di una vera e propria regressione pascoliana verso lo stadio natale, o, meglio ancora, verso lo stadio prenatale, cioè di una regressione nel grembo materno; tornare a prima della vita vuol dire tornare a prima della storia, e dunque vivere al di fuori di quel mondo che era tanto intriso di violenza e che spaventava tanto Pascoli.
Il tema del “nido” appartiene in pieno alla poetica decadente, e precisamente a quel filone chiamato “dell’uomo senza qualità” che si contrappone ai miti dell’esteta e del super-uomo. Ma anche il “nido”, come l’esteta possiede una carica violenta, una decisa dimensione antisociale: se l’esteta disprezza il mondo borghese perché inferiore, Pascoli si rifugia nel “nido” dell’infanzia e rifiuta il mondo perché questo gli fa paura. La stessa funzione del “nido” viene svolta in Pascoli dalla campagna, che è ben diversa da quella verghiana percorsa dalla malaria, dalla dura fatica, dalle imprecazioni dei lavoratori; la campagna, in Pascoli, diventa il rifugio dalle tempeste della vita: gli alberi e le siepi frequentemente evocati nelle sue poesie rinchiudono il suo fazzoletto di terra e lo difendono dai pericoli del mondo (poetica della siepe). E’ stato notato, inoltre, come la campagna, intesa come luogo di protezione, possa essere interpretata anche come simbolo della patria.
Pascoli assunse, poi, nel corso della sua vita, delle posizioni ideologiche che appaiono in contrasto con il tema del “nido”, ma che in realtà risultano coerenti con esso, e sono precisamente il cosiddetto socialismo pascoliano e il suo tardo nazionalismo. Con un discorso pronunciato a Barga nel 1911, “La grande proletaria si è mossa”, egli prese posizione a favore della conquista coloniale della Libia, sostenendo che l’Italia, nazione povera e proletaria, aveva il diritto di conquistare terre dove mandare i suoi figli che morivano di fame, e nel mentre avrebbe anche portato civiltà in quei luoghi ancora rozzi. E’ interessante come Pascoli utilizzi in una nuova chiave il termine “proletario” (dice “Italia proletaria”) spostando la lotta di classe dagli uomini alle nazioni. Quanto al socialismo pascoliano, poi, esso è da intendersi non in chiave scientifico-politica, ma come umanitarismo, come desiderio di fratellanza universale. Tuttavia, sia il socialismo, sia il nazionalismo, non contrastano con il tema del “nido”, in quanto tali ideologie non fanno che ampliare la dimensione del nido dall’ambito familiare a quello della nazione, e più ancora a quello dell’intera umanità. Tutti gli uomini, insomma, dovrebbero vivere uniti, solidali, immuni dall’odio e dalla violenza.
Le opere del PascoliLa prima raccolta del Pascoli uscì nel 1891 con 22 liriche con il nome di "Myricae". Questo nome, preso dalla 4° bucolica (componimento poetico spesso in forma di dialogo) di Virgilio. La raccolta si caratterizza dalla presenza di argomenti semplici e modesti, che spesso ricadono sul tema della famiglia e della vita campestre. Nelle opere del Pascoli il paesaggio assume un forte significato, evidenziando anche l'animo dello scrittore stesso. Le due poesie certamente più importanti di questa raccolta sono "X agosto" e "Lavandare".
La prima tratta della morte del padre, avvenuta proprio il 10 agosto dove il cielo, secondo il poeta, piange con le proprie stelle la morte di suo padre e la malvagità del mondo, atomo opaco del Male. In questa poesia è forte la presenza del focolare domestico, della famiglia e del nido famigliare.
La seconda invece è ambientata in novembre, mese caro al poeta in quanto presenta giorni nebbiosi avvolti nel mistero, in un'atmosfera quasi sospesa tra sogno e realtà e dove un aratro abbandonato in mezzo a un campo mezzo arato, assume il significato simbolico di chi, come la lavandara, ha perso l'affetto che dava un senso alla propria vita. E' chiaro che nella solitudine della donna il poeta riflette la propria.
D’altro canto lo stesso Pascoli era consapevole del rischio di una commozione eccessiva, tanto che nella prefazione a “Myricae” scrive che forse in quella raccolta c’era qualche lacrima di troppo, qualche singhiozzo che egli non era riuscito a frenare.Nelle opere successive a “Myricae” permangono gli stessi temi già individuati, che sono i ricordi assillanti dell’infanzia e lo smarrimento dinanzi al mistero. Con i “Poemetti” e i “Nuovi Poemetti”, Pascoli modifica in parte le proprie scelte stilistiche e si indirizza verso componimenti più ampi, nei quali passa in rassegna l’alternarsi delle stagioni in campagna, con le diverse attività svolte dai contadini. E’ logico che qui la campagna non può essere per lui un rifugio di quiete, ma è un luogo nel quale il poeta proietta le sue inquietudini, per cui le apparenze familiari si caricano di significati inquietanti, misteriosi, indecifrabili. La raccolta “I canti di Castelvecchio” (Castelvecchio era la località toscana in cui Pascoli aveva la casa) è quella più vicina a “Myricae” perché anch’essa è costituita da liriche brevi, tramate da frequenti ricordi familiari. C’è, in particolare, un nucleo di liriche, dal titolo “Ritorno a San Mauro”, che raccoglie i componimenti specificatamente dedicati al recupero familiare: il poeta tenta di rientrare nel mondo dell’infanzia ma ne viene respinto: il suo Eden è perduto per sempre.
La prima tratta della morte del padre, avvenuta proprio il 10 agosto dove il cielo, secondo il poeta, piange con le proprie stelle la morte di suo padre e la malvagità del mondo, atomo opaco del Male. In questa poesia è forte la presenza del focolare domestico, della famiglia e del nido famigliare.
La seconda invece è ambientata in novembre, mese caro al poeta in quanto presenta giorni nebbiosi avvolti nel mistero, in un'atmosfera quasi sospesa tra sogno e realtà e dove un aratro abbandonato in mezzo a un campo mezzo arato, assume il significato simbolico di chi, come la lavandara, ha perso l'affetto che dava un senso alla propria vita. E' chiaro che nella solitudine della donna il poeta riflette la propria.
D’altro canto lo stesso Pascoli era consapevole del rischio di una commozione eccessiva, tanto che nella prefazione a “Myricae” scrive che forse in quella raccolta c’era qualche lacrima di troppo, qualche singhiozzo che egli non era riuscito a frenare.Nelle opere successive a “Myricae” permangono gli stessi temi già individuati, che sono i ricordi assillanti dell’infanzia e lo smarrimento dinanzi al mistero. Con i “Poemetti” e i “Nuovi Poemetti”, Pascoli modifica in parte le proprie scelte stilistiche e si indirizza verso componimenti più ampi, nei quali passa in rassegna l’alternarsi delle stagioni in campagna, con le diverse attività svolte dai contadini. E’ logico che qui la campagna non può essere per lui un rifugio di quiete, ma è un luogo nel quale il poeta proietta le sue inquietudini, per cui le apparenze familiari si caricano di significati inquietanti, misteriosi, indecifrabili. La raccolta “I canti di Castelvecchio” (Castelvecchio era la località toscana in cui Pascoli aveva la casa) è quella più vicina a “Myricae” perché anch’essa è costituita da liriche brevi, tramate da frequenti ricordi familiari. C’è, in particolare, un nucleo di liriche, dal titolo “Ritorno a San Mauro”, che raccoglie i componimenti specificatamente dedicati al recupero familiare: il poeta tenta di rientrare nel mondo dell’infanzia ma ne viene respinto: il suo Eden è perduto per sempre.
L’ultima raccolta di rilievo sono “I poemi conviviali”, del 1904. Si tratta di poemetti in cui Pascoli rievoca figure celebri della classicità greco-romana, ma finisce per proiettare anche nel passato la stessa inquietudine del presente, per cui avviene che figure eroiche come Ulisse o Alessandro Magno divengano persone tormentate che si interrogano sul senso della vita (capovolgimento delle figure classiche).
Nelle opere successive, “Odi e Inni” ,Pascoli si atteggia a cantore delle glorie della patria, ma si inoltra per un sentiero estraneo alla poetica del fanciullino, che è quella per lui più autentica, e la poesia che ne risulta è densa di retorica e ha il solo valore di testimonianza culturale.
Da citare, poi, i numerosi “Poemetti latini” che gli permisero di vincere il primo premio al concorso di poesia in lingua latina ad Amsterdam.
Con Pascoli il verso si spezza in numerose pause, si dilata attraverso i molti enjambement, si carica di dolente musicalità. Frequentissimo è l’uso delle analogie e delle sinestesie implicite nella poetica del poeta-fanciullo che consce la realtà in modo ingenuo e irrazionale, scoprendo legami che la ragione non riesce a cogliere; frequenti sono anche le figure di suono: onomatopee e fonosimbolismi (i fonosimbolismi sono parole che non si limitano a riprodurre un suono della realtà, ma acquistano un valore autonomo, che diventa emblema del mistero angoscioso che circonda l’uomo).
Ricordiamo, a questo proposito, il celebre giudizio di Gianfranco Contini il quale parla di un triplice linguaggio pascoliano. Egli dice che Pascoli usa: 1) un linguaggio grammaticale, che è la lingua italiana normale; 2) un linguaggio pre-grammaticale, che è la lingua che viene prima della grammatica, quella costituita dalle onomatopee e dai fonosimbolismi; 3) un linguaggio post-grammaticale, quello che viene dopo la grammatica ed è costituito dalle lingue speciali, come i carmina o il dialetto della Garfagnana, la regione in cui si trova Castelvecchio.
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