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sabato 31 luglio 2010

ALESSANDRO MANZONI

Vita e opere di Alessandro Manzoni

Nasce a Milano nel 1785 da un padre di recente nobiltà, Pietro Manzoni, e da Giulia Beccaria (figlia del celebre Cesare Beccaria, autore Dei delitti e delle pene, contro la pena di morte e le torture). Il figlio Alessandro iniziò a studiare presso collegi religiosi, ma a 16 anni scrive un poemetto, di ispirazione giacobina, Il trionfo della libertà, dimostrando che l'educazione religiosa ricevuta in quei collegi non aveva avuto alcun effetto su di lui. La sua prima formazione intellettuale fu piuttosto razionalistica e illuministica, anticlericale, influenzata dalle idee che l'impresa napoleonica trapiantò in Italia. In particolare, egli ha ben chiaro, che il poeta deve avere una funzione pedagogica o educativa, pratica e moralizzatrice, strettamente legata alle vicende storiche.
Nel periodo giovanile l'opera più significativa del Manzoni è il Carme in morte di Carlo Imbonati, ove si esalta la funzione dell'arte volta alla formazione dell'uomo morale (disposto al sacrificio, interiormente libero, virtuoso, ecc.) e dove si rifiuta nettamente la mitologia in uso in molta poesia del suo tempo.
A Parigi, dal 1805 al 1810, Manzoni frequenta i circoli letterari e culturali in cui domina la filosofia razionalista e materialista del Settecento, e sposa nel 1808 Enrichetta Blondel, di religione calvinista, che lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che  nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie.
Appena convertito, il Manzoni decide di lasciare per sempre Parigi  e, rientrato a Milano, vi rimane quasi ininterrottamente dal 1810 alla morte.

Le opere minori

Nei quattro Sermoni il poeta satireggia la corruzione dei costumi familiari, la sfrontatezza delle persone arricchite, la facile e ambigua fortuna degli ambiziosi favoriti dalla corrotta vita politica. In morte di Carlo Imbonati il poeta immagina apparirgli in sogno il conte il quale dopo aver parlato del mondo pieno di malvagità ed aver dichiarato il suo amore per Giulia Beccaria indica al giovane quali norme di vita deve tenere sempre presenti: modestia, dignità, e possesso della virtù.
Gli Inni Sacri del Manzoni sono in totale cinque più un piccolo frammento, essi sono: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e la Pentecoste. In essi il poeta celebra la recuperata fede, la pietà umana la carità e l'uguaglianza.

Le tragedie

Il Conte di Carmagnola, la vicenda è posta nel '400 all'epoca delle contese tra Venezia e Milano e s'incentra sulla figura di un capitano di ventura del tempo Francesco Bussone, conte di Carmagnola, già a servizio dei visconti di Milano e passato poi alle dipendenze della repubblica di Venezia. La tragedia inizia appunto con l'elezione del Carmagnola a condottiero delle forze venete non senza contrasti e sospetti da parte del Senato che anzi li acuiscono dopo la vittoria ottenuta nella battaglia di Maclodio contro i milanesi per l'eccessiva generosità mostrata dal condottiero verso i prigionieri tanto che il Carmagnola viene richiamato a Venezia e lì condannato a morte.
Adelchi è ambientata in Italia nel periodo della dominazione Congobarda e dei conflitti con i franchi di Carlo Magno. La storia inizia quando Ermenguarda figlia di Desiderio re dei longobardi ritorna presso il padre Pania perché ripudiata dallo stesso Carlo Magno. Un ambasciatore di quest'ultimo intima il re straniero di liberare i territori pontifici occupati, ma desiderio accanto al suo figlio Adelchi trascina gli italiani in una feroce guerra, ma Carlo Magno ha la meglio contro Desiderio attaccandolo sulle Alpi e a sconfiggerlo.

Le odi

Marzo 1821, fu composta per i moti del 1821 in Piemonte quando si aspettava che i Piemontesi avrebbero liberato la Lombardia insorta. Ma come si sa, il moto del Santarosa fallì e il Manzoni fu costretto a non pubblicare l'ode.
Il 5 Maggio fu composta in tre giorni nel luglio 1821 quando arrivò a Milano la notizia della morte di Napoleone. Il 5 Maggio rappresenta uno dei vertici più alti della poesia Manzoniana.

 

Ideologia e Poetica

Manzoni è il rappresentante più significativo del movimento romantico italiano. In lui si realizza la sintesi delle idee illuministiche con quelle cristiane. Vi è quindi il rifiuto del materialismo ateo di Foscolo e Leopardi, ma non quello delle idee illuministiche di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità, le quali però vengono per così dire unite da una religiosità cattolico- giansenista.
L'idea religiosa dominante è quella di provvidenza, grazie alla quale anche il male -secondo il Manzoni- può essere ricompreso in una visione più globale della storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina. Chi vuole compiere il male è guardato dal Manzoni non con disprezzo ma con ironia, appunto perché il credente sa in anticipo che il corso della storia non può essere modificato dalle singole azioni negative degli uomini. Ovviamente per il Manzoni gli uomini non devono attendere passivamente la realizzazione del bene, ma devono avere consapevolezza, che la realizzazione del bene dipenderà dai tempi storici della provvidenza più che dalla loro volontà. Senza questa consapevolezza gli uomini tenderebbero ad attribuire a loro stessi la causa di ogni bene, il che li porterebbe facilmente a ricadere nel male.
Sul piano poetico, Manzoni rifiuta categoricamente ogni mitologia, ogni fantasia che non abbia riscontri reali, ogni imitazione dei classici greco-romani. Accetta la fusione della storia con la poesia (di qui ad es. il concetto di "romanzo storico"), perché se la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli protagonisti. La letteratura deve avere - questa è la sua formula più riuscita - l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo. È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. Il vero storico - per il Manzoni - è sempre quello che desta maggior interesse. L'arte quindi avrà un valore educativo se sarà finalizzata alla comprensione della verità storica . Scopo del romanziere è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio (il coro) in cui poter parlare personalmente, rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità.

Nel teatro Manzoni propone l'abolizione delle unità aristoteliche di tempo e luogo, salvando solo quella di azione. Le due unità erano rigorosamente rispettate nel teatro italiano perché si credeva, in tal modo, di poter salvaguardare il principio di verosimiglianza dell'azione degli attori. Trasportare da un luogo all'altro gli avvenimenti o prolungare l'azione aldilà di un giorno, si pensava che togliesse allo spettatore la convinzione (l'illusione) di essere direttamente coinvolto per 2 o 3 ore nell'azione degli attori. Il Manzoni invece dà per scontato che lo spettatore sappia di assistere a una finzione (il teatro stesso di per sé è illusione), per cui lo spettatore - secondo lui - non ha difficoltà ad accettare il susseguirsi d'avvenimenti concatenati che accadono in tempi e luoghi diversi.
Tuttavia, poco dopo aver scritto i Promessi sposi, il Manzoni nega l'utilità del romanzo storico, sostenendo che la verità che la storia ci fa conoscere è sufficiente; per cui o si fa storia o si fa invenzione.





Anche Alessandro Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue idee sul questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica: l'opera letteraria ha "l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per mezzo".
È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento.
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente congiunta con lo spirito di un'epoca, che è irripetibile. Infine anche la Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione.
L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza nasconderlo, un preciso intendimento patriottico-risorgimentale che emerge dalle pagine del periodico Il Conciliatore. È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal conte Federico Confalonieri (1785-1846), che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-1842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico, "Conciliatore", non è casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla "pubblica utilità", istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i "conciliatori" si considerano eredi e prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece grande scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta.

Gli anni del "periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, "spazzati via" dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili. Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza dell'anima.
Con la scrittura delle tragedie Il conte di Carmagmola e Adelchi, si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il fondamento della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni offre un vero saggio di metodologia. Egli sostiene che l'unità d'azione non corrisponde a un singolo avvenimento, ma a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni (come quello di causa ed effetto). Collante che garantisce l'unità dell'azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto per i fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei personaggi, così come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in seguito a una severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco dell'insegnamento dello Schlegel che costituisce il punto fondamentale della poetica manzoniana: il rispetto della verità storica è garanzia della validità morale ed estetica dell'opera d'arte: l'unità d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto. Si noterà anche che non è estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione, la visione religiosa dell'autore.

La corrente romantica e il Manzoni

Del Romanticismo il Manzoni è indubbiamente uno tra i maggiori esponenti a livello europeo, anche se spesso gli viene attribuito un legame con la corrente settecentesca dell'Illuminismo, il movimento antagonista per eccellenza della corrente romantica. In effetti vi sono parecchie analogie tra alcune ideologie del poeta e gli illuministi, dovute specialmente agli intellettuali di quel periodo che frequentò giovanissimo, per il resto, la formazione che ebbe in seguito, è strettamente romantica.
Intanto per l'originalità e l'unicità dei componimenti, che non lasciano spazio solo ed esclusivamente a fredde strutture razionali definite, né la loro esistenza presuppone un preciso scopo strumentale; tutte le opere nascono sotto la spinta di particolari sentimenti, siano essi rabbia, tristezza, felicità, voglia di libertà, amore per la patria. Oltre a questo, l'uomo di cultura romantico, non appartiene più alla cosiddetta classe aristocratica, o meglio, non solo alla classe privilegiata, bensì alla borghesia, la classe emergente che ha trovato nel sapere il suo riscatto da una società che voleva gli uomini disposti e inquadrati secondo certi canoni che impedivano loro qualunque tentativo di uscirne fuori.
Il borghese non accetta un'esistenza delimitata e razionale, ma si lascia guidare dal sentimento: lotta per la libertà perché riconosce di averne il diritto, ama la patria perché la sente propria, ha un'istruzione perché solo così può continuare a riguardarsi e difendere ciò che gli spetta.
Inutile sottolineare che il Manzoni incarna l'ideale del Romanticismo da ogni punto di vista, anche Umberto Saba, in seguito, ne sottolineò l'unicità definendolo il poeta "onesto", unica eccezione per l'interesse storico.
L'importanza della storia nel Romanticismo crebbe in modo impressionante tra i letterati, ma egli sembrò non interessarsi; infatti non fu mai un grande storico, non ebbe mai gli interessi profani dei "colleghi". Piuttosto la storia costituì il campo delle osservazioni morali, il paragone dell'agire umano, la storiografia manzoniana è molto particolare per una diffusa religiosità che lo conduce intendere e spiegare il male, la perversità e le calamità. Naturalmente i romantici consideravano inspiegabile l'origine del bene e del male così come ritenevano Dio l'Essere esistente a priori, dunque la pretesa del Manzoni era inammissibile.
La varietà di definizioni che il Romanticismo acquistò, è dovuto ,in parte, anche alla diversità di stile dei suoi appartenenti, sia in Italia, sia in tutta Europa, ecco perché ogni paese può benissimo affermare di possedere un proprio Romanticismo indipendente, che con gli altri condivide solamente alcuni punti di riferimento, identici per tutti.
Sicuramente si deve tantissimo a questa corrente, un solo secolo ha modificato scuole di pensiero dalle radici millenarie, a volte calibrandone meglio l'ottica e allargando gli orizzonti alla modernità dei tempi attuali, e si deve riconoscere anche un grande merito a molti intellettuali che, proprio come il Manzoni, sono stati i precursori e i promotori del cambiamento.

L'Europa e il romanzo

Nell'Europa del primo Ottocento, invece, il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare in Francia nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La Fayette: ambientato a metà del Sedicesimo secolo, alla corte di Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso dell'onore e del dovere. Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie, sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base, sta il meccanismo tipico dei romanzi d'avventura. D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell'amore contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile di eroina romantica nella figura di Giulia, figlia obbediente e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe (1719) dell'inglese Daniel Defoe, mentre il motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una componente che manca in tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento, all'interno del filone "gotico", compaiono romanzi "neri", in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene: è questo il contenuto del Castello di Otranto (1764) dell'inglese Horace Walpole, in cui emerge la figura della fanciulla che, a causa della persecuzione del nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese Dénis Diderot, narra le peripezie di una giovane che entra in convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della monaca di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo, suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore. Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di scena, e compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore infelice nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795) offre un valido spunto anche per Manzoni. L'analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio di Renzo che, nel corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare una personalità sicura.

Il 5 maggio

Dedicata a Napoleone. Scritta dal 17 al 19 luglio 1821, cioè subito dopo ch'era giunta a Milano la notizia della morte di Napoleone, avvenuta appunto il 5 maggio.
  1. Il Manzoni non ha mai amato la dittatura di Napoleone, però considerava giuste le idee della Rivoluzione francese, che Napoleone voleva imporre con la forza a tutta Europa.
  2. Il Manzoni qui non giudica Napoleone col metro morale, non si chiede cioè se il suo operato fu "vera gloria", in quanto lascia la sentenza ai posteri. Dice soltanto che anche in Napoleone, Dio ha compiuto i suoi disegni in modo misterioso, senza che neppure Napoleone se ne rendesse conto.
  3. L'uomo-Napoleone appare al Manzoni migliore del dittatore, anche perché si diceva fosse morto cristianamente. Di conseguenza il vero soggetto dell'ode civile è Dio che redime gli uomini, e Napoleone non è che l'oggetto della provvidenza di Dio.

L'ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-19 luglio 1821) subito dopo la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva provocare nel Poeta una notevole impressione che creò quello sgomento che sempre coglie gli uomini quando muoiono i Grandi che sembrano indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità della solitudine, acuita dal ricordo delle grandezze passate e dall'ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non arriva (Napoleone che scruta l'orizzonte lontano sul mare), e infine la pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera "a speredere ogni ria parola" superando la condizione umana contingente nell'attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza. Possiamo dividere l'ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi versi 108, in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine: o la prima fino al verso 54, dominata dalla presenza dell'uomo di fronte a se stesso, alla sua storia terrena, alla sua gloria umana, al premio / ch'e follia sperar; domina Napoleone e la sua storia, per il quale Manzoni non si era prodigato in elogi negli anni in cui dominò l'Europa, e non aveva neanche pensato un codardo oltraggio quando il destino dell'uomo era ormai segnato solo dalla sconfitta; di fronte alla morte di Napoleone il Poeta e la terra tutta restano muti nella meraviglia un po' dolorosa di una morte "incredibile". o la seconda dal v. 55 alla fine, dominata dall'incontro tra l'uomo e Dio, la benefica / Fede ai trionfi avvezza, che sola può dare quel premio / che i desideri avanza, / dov'è silenzio e tenebre / la gloria che passò. I verbi al passato remoto in questa seconda parte sono soltanto sei, le tre coppie sparve/chiuse, imprese/stette, ripensò/disperò ed esprimono una escalation verso una condizione di disperazione e di solitudine assoluta che può essere risolta solo attraverso l'intervento di una Forza esterna all'uomo. Per questo, finita l'escalation verso la disperazione, si impone una presenza diversa.
Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che è solo uno dei due centri costitutivi dell'ode (l'altro è Dio). Ciò che colpisce l'immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la figura di Napoleone, dominatore degli eventi a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, o la storia dei fatti o delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti nell'isola di Sant'Elena, e la possibilità di un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di un affidamento alla pietà di Dio all'avvicinarsi della fine dei propri giorni.
Il poeta rimane muto ripensando agli ultimi attimi della vita di un uomo che il Fato aveva voluto arbitro della storia e di tanti destini umani, di un uomo che si era posto lui stesso come Fato/arbitro dei destini dei popoli e che racchiuse in sé le aspettative di un'epoca; e allora non può che ripensare a quando potrà esistere nuovamente un uomo altrettanto decisivi per i destini umani, che, calpestando la sanguinosa polvere del mondo e della vita, lascerà nella storia un'orma altrettanto grande.
E quegli ultimi attimi sono fusi nell'ansietà di un naufrago, oppresso dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.

"Marzo 1821": elogio della libertà umana

L'ode fu scritta da Manzoni in occasione dei moti carbonari piemontesi del 1821, quando l'atteggiamento riformistico e liberale del giovane Carlo Alberto, erede al trono piemontese e Reggente in attesa dell'arrivo del Re Carlo Felice di Savoia, che sembrava stesse per varcare il Ticino ed entrare con le armi in Lombardia per aiutare i patrioti a liberare il Lombardo-Veneto dall'oppressivo dominio austriaco, aveva acceso le speranze dei liberali e di coloro che aspiravano all'unificazione dei vari stati italiani sotto un'unica bandiera. Ma le speranze vennero ben presto vanificate sia dall'intervento di Carlo Felice che della polizia austriaca, che procedette a una dura repressione nella quale furono coinvolti, tra gli altri, Silvio Pellico e Federico Confalonieri. L'entusiasmo di quei giorni venne quindi subito stroncato dagli eventi, ma l'ode rispecchiò profondamente uno spirito che non verrà mai soffocato e che ha rappresentato uno degli elementi politici e culturali fondamentali dell'Ottocento, elemento che, dopo circa trentanni di discussioni e approfondimenti, che toccarono non solo le sfere della politica e del diritto, ma anche quella della religione (pensiamo ad esempio al Neoguefismo), a partire dal 1848 in poi, comincerà a trovare una sua qualche realizzazione, non appena i sentimenti liberali si diffonderanno nelle classi sociali medio-basse e diventeranno popolari, non appartenenti più a una ristretta élite. Nel timore di una perquisizione della polizia, il Manzoni nascose o addirittura distrusse il manoscritto dell'ode, ma qualche copia venne conservata da amici, e fu pubblicata solo nel 1848, a cura del Governo provvisorio di Milano, a seguito del successo delle Cinque Giornate che facevano ben sperare in una felice conclusione della liberazione dallo straniero, devolvendo i proventi ai patrioti. Alla base dell'ode si trovano, quindi motivi storici e politici e di esaltazione della libertà dallo straniero insieme a una presenza di Dio, viva e puntuale nelle vicende umane, una presenza che aiuta l'uomo a combattere non solo per il personale riscatto dal peccato, ma anche in senso più universale a combattere per il riscatto della patria dallo straniero, portando gli uomini verso la creazione di un mondo in cui ci sia veramente un maggiore rispetto dell'uomo per gli altri uomini, superando la barriera dell'egoismo personale e dell'interesse politico di una classe sociale che pensa solo e innanzitutto a mantenere il proprio potere. L'ode è un appello alla libertà di tutti i popoli, che va al di là della polemica contro i princìpi (soprattutto quello di legittimità) sanciti dal Congresso di Vienna, princìpi che non tenevano conto delle nuove aspirazioni dei popoli e della nuova situazione europea, venutasi a creare sia con la Rivoluzione francese (sul piano ideologico e politico) che con la Rivoluzione industriale (sul piano economico); l'ode è un appello, infine, contro ogni forma di violenza, ad abbandonare la via del male per seguire quella del diritto dei popoli, rivolto proprio a quei popoli e a quei governi che solo qualche anno prima l'avevano sbandierato per liberarsi dall'oppressione napoleonica. Per questo diventa fondamentale un concetto in questo appello: Dio protegge gli uomini oppressi, e come aveva già protetto a suo tempo i Tedeschi (accomunati agli Austriaci) così avrebbe protetto gli Italiani; ed è proprio il concetto della protezione degli oppressi che troverà la sua grandiosa e definitiva sistemazione ideologica ed artistica ne I Promessi Sposi. Il Poeta dedicò l'ode a Teodoro Koerner, patriota e poeta romantico tedesco, autore di drammi e canti patriottici contro l'oppressione napoleonica, morto combattendo nel 1813 combattendo nella battaglia di Lipsia, secondo il Manzoni. "In questa poesia il Manzoni esprime il proprio ideale nazionale unitario, fondato sull'unità di lingua, di religione, di tradizioni, di stirpe e di aspirazioni, superando ogni forma politicamente gretta o vuotamente rettorica dell'ideale patriottico e incentrandolo su un'effettiva comunione di vita, materiale e spirituale, del popolo, sancita da una tradizione nazionale (le memorie del v. 32). Altrettanto importante è l'ammonimento rivolto agli stranieri che si sono serviti degli ideali nazionali per far ribellare i popoli a Napoleone, ma subito dopo hanno sostituito la loro oppressione a quella dell'imperatore francese. Qui c'è un'altissima e nobile protesta contro la bassa politica della violenza e dell'intrigo, totalmente opposta al messaggio cristiano. È la voce di un cattolico liberale, che esorta gli italiani a insorgere contro l'oppressione in nome di un Dio che è amore ma anche giustizia. Il diritto alla libertà diviene così un dovere, un momento della lotta per l'affermazione del del bene contro il male; Il Manzoni, che nelle Tragedie esecra la guerra, non esita qui a invocare il Dio degli eserciti, a incitare gli Italiani a combattere in nome della giustizia

Adelchi
(coro dell'Atto terzo Dagli atri muscosi...)

  1. Il coro è stato scritto subito dopo il fallimento dei moti del '21
  2. Il Manzoni rifiuta l'idea che un popolo debba sperare di liberarsi da uno straniero in patria (in questo caso i longobardi) confidando nell'aiuto di un altro straniero (i franchi)
  3. Il Manzoni accetta l'idea che i destini di una nazione debbono essere decisi soprattutto dal suo popolo, non da popoli stranieri e neppure da singoli eroi (il "grande protagonista" della storia deve restare il popolo)
  4. Il riferimento alla situazione contemporanea al poeta è evidente: lo straniero in patria sono gli austriaci e i borboni, lo straniero cui si chiede aiuto sono i francesi
  5. Il coro è la riflessione che il poeta fa sulle vicende della storia rappresentate in forma teatrale (in questo caso tragica)

Caratteri generali delle Odi

Nate in un periodo di importanti avvenimenti politici e sociali, le Odi Civili rappresentano la sintesi del pensiero manzoniano, cioè gli ideali di democrazia, libertà e giustizia, ereditati dalla corrente illuminista e mantenuti caparbiamente per tutta la vita. Dal movimento romantico il Manzoni acquisì il grande patriottismo che caratterizza entrambe le sue opere, anche se fu sempre legato ad una religiosità molto forte che contribuì a rafforzare le sue concezioni di vita, discostandosi completamente dalle credenze ottocentesche negative degli altri letterati dell'epoca. La sua fede, infatti, aderente ai contenuti positivi che il Vangelo presenta, non transige nel rispettarle.
Il suo "modus vivendi",dunque, non poteva che gettare le basi di un nuovo concetto, di cui egli ne è il rappresentante assoluto: la "provvida sventura".
Pur sembrando, in apparenza, la non-via d'uscita che condanna l'uomo alla disperazione eterna, è in realtà l'unico mezzo di salvezza per coloro che desiderino essere in grazia di Dio e meritare il suo perdono. Nelle Odi ne ricorrono esempi eclatanti, in particolar modo il "Cinque Maggio": mentre in "Marzo 1821" viene messo maggiormente in rilievo l'amor di patria, esplicitato dalla dedica introduttiva al Koerner, il patriota tedesco morto a Lipsia combattendo contro Napoleone, il "Cinque Maggio", invece, può considerarsi l'opera più completa e geniale del Manzoni.
In primo luogo dal punto di vista dei contenuti: vari e numerosi. Il necrologio introduttivo, i flashback che contribuiscono a rievocare la grandezza delle imprese, fino ad un'indagine psicologica e ad una possibile interpretazione del pensiero del Bonaparte, quindi l'applicazione del vero storico e poetico, comune a tutti gli scrittori romantici.
In secondo luogo, la fama procuratagli: il clamore suscitato dall'avvenimento, rese il componimento noto e diffusissimo, anche grazie al Goethe, che la tradusse per condividerne la bellezza dei versi con i letterati tedeschi. In terzo luogo, la conferma della sua genialità: le fonti storiche affermano che l'autore, turbato dalla notizia, la compose in meno di tre giorni ; la vastità e la complessità, l'impiego di termini e strutture poetiche alquanto ricercati, inducono a riflettere sulle effettive capacità poetiche del Manzoni, che , a quanto pare, sono davvero incommensurabili. Per tutti i motivi enunciati, "Marzo 1821" non può certo considerarsi alla stregua del "Cinque Maggio", che è certamente la più famosa, ma che in fin dei conti non è da meno per quanto riguarda la scelta lessicale, metrica e semantica. E' notevole come anche in questo contesto la figura di Napoleone abbia un ruolo di spessore, che, da un certo punto di vista, può essere riconosciuto come il vero protagonista delle Odi, sotto due aspetti nettamente contrapposti: l'oppresso esule, l'oppressore imperatore. Il rapporto "oppresso-oppressore" è un altro concetto che ricorre spesso nelle opere manzoniane: dalle Odi, alle tragedie, al romanzo più popolare "I Promessi sposi". L'oppresso è colui che è costretto, spesso con la violenza, a subire la volontà altrui, sia esso un semplice signorotto (Don Rodrigo) o l'imperatore dei francesi in persona (Napoleone): è sempre destinato a riscattarsi e a vincere l'oppressore, che finisce per pagare con la vita ed essere condannato alla dannazione, a meno che non intervenga la "Provvida sventura" per salvarlo. L'oppresso confida in Dio e nella fede, ed è questa la sua forza. "Marzo 1821", per questo aspetto, assume un valore educativo: è uno stimolo per capire l'importanza della libertà e trovare il coraggio di lottare per affermarla ad ogni costo. Il popolo deve essere parte attiva, perché esso costituisce la nazione, non deve sperare passivamente nell'intervento altrui, proprio perché affidarsi ad esterni, è segno di poca intraprendenza, quindi di incapacità nell'autogestirsi, precludendo così un'eventuale futura indipendenza nazionale. Per questo è vitale, innanzitutto, acquisire una nuova mentalità, sentendosi tutti cittadini di un solo paese, e solo dopo cementare quest'unione senza distinzioni, da nord a sud. Forse in fondo l'intento del Manzoni consisteva proprio nell'aiutare sia i suoi concittadini, sia l'intera nazione, anche se lo spunto che lo spinse alla composizione fu la delusione personale procuratagli dal Bonaparte: venuto in Italia come alleato, se ne impadronì con prepotenza per annetterla al suo impero; non è allora casuale la scelta del Koerner come simbolo dell'indipendenza. Nonostante tutto, l'ode è più che mai piena di ottimismo, qui espresso come concetto di unità, mentalità piuttosto all'avanguardia per un'epoca in cui niente lasciava prevedere il futuro di un unico suolo italiano, di una sola etnia con usanze, costumi e religione identiche, data la scompattezza all'interno dei singoli stati e le condizioni sociali impossibili. Senza ombra di dubbio, comunque, la poesia che il Manzoni prende in considreazione, è quella "utile" moralmente e semanticamente, con le sue basi di verità e con le forme che hanno il compito di coinvolgere il lettore. In tutti i suoi lavori, il poeta non si è mai allontanato da questo stile, perché, in fin dei conti, il significato nascosto in ognuna delle sue opere, è la commiserazione della fragilità e della miseria umana, contrapposta alla celebrazione della Provvidenza divina.

La fortuna letteraria del Manzoni

La fortuna del Manzoni nelle pagine di critica letteraria comincia già all'epoca della sua giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo Foscolo apprezzano il poeta in erba. I Promessi Sposi riscuotono un grande successo e nell'arco di un anno sono stampate tredici edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l'opera del Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis che dedica all'autore un intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue Carducci, che lo taccia di conformismo borghese, mentre il filosofo e critico Benedetto Croce afferma che il romanzo manzoniano non contiene poesia, ma è opera oratoria, Antonio Gramsci (1891-1937) accusa Manzoni di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli umili, nel saggio Letteratura e vita nazionale (1950), conglobato nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce sono, a tutt'oggi, gli interpreti più acuti dell'opera manzoniana. Attilio Momigliano, Luigi Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari temi e al significato dei personaggi, l'unità poetica e il messaggio fondamentalmente umano dell'opera manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939 un'edizione nazionale delle opere del Manzoni e, negli anni Cinquanta, attua un'edizione critica delle tre redazioni del romanzo, per consentire ai critici utili esami comparativi. Gli studiosi più recenti (G. Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G. Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E. Raimondi, M. Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del suo tempo, valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito, attraverso gli epistolari, il complesso e variegato "ambiente" manzoniano, costituito dai familiari, dagli amici e dai collaboratori.

Introduzione ai Promessi Sposi

Alessandro Manzoni inizia a scrivere I Promessi Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trova con la famiglia nella bella villa di Brusuglio, immersa nella campagna, a pochi chilometri da Milano. Sono tempi difficili: in città la polizia austriaca sta arrestando, uno a uno, i patrioti affiliati alla società segreta della Carboneria. L'anno prima è stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso i processi nei quali sono anche implicati i collaboratori del Conciliatore, tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-1854).
Molti di loro sono amici e conoscenti di Manzoni che spera, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire estenuanti interrogatori.
Ha con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e il saggio di Melchiorre Gioia (1767-1829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove legge il passo di una grida (legge emanata dal Governatore di Milano, chiamata così perché veniva gridata nelle strade da pubblici ufficiali, al fine di informare i cittadini, spesso analfabeti) del Seicento, che commina pene severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto l'introduzione e i primi due capitoli del romanzo che, in realtà, sta enucleando nella mente da alcuni anni e che rappresenta una vera e propria sfida, per la sua novità formale e di contenuto. Ricostruire il processo di ideazione, stesura e revisione di questo capolavoro significa aprire anche uno spaccato sulla vita culturale dell'Ottocento e calarsi in quell'affascinante fase della cultura italiana che segue e sorregge le prime fasi del processo di unificazione nazionale.

L'ispirazione dei Promessi Sposi

Secondo l'opinione del direttore dei musei manzoniani di Lecco, prof. Gianluigi Daccò, quando il Manzoni disse nel suo romanzo d'essersi ispirato a vicende storiche trovate nel manoscritto di un anonimo, diceva la verità, solo che il protagonista di quelle vicende era un suo trisavolo, di nome Giacomo Maria, vissuto nella zona di Lecco nella prima metà del Seicento. I documenti si trovano nell'archivio di famiglia dello scrittore.
Ecco la storia, che praticamente inizia verso il 1610. Lecco e la Valsassina erano le zone di massima produzione del ferro di tutto il Ducato Lombardo. Due importanti famiglie, i Manzoni di Lecco e Barzio (capeggiati appunto da Giacomo Maria) e gli Arrigoni di Introbio (capeggiati da Emilio), controllavano l'intero ciclo produttivo del ferro: dalle miniere e fonderie della Valsassina alle officine per produrre archibugi e palle da cannone. Avevano molti dipendenti, fortissimi mezzi economici e solidi agganci con le strutture politiche, amministrative e giudiziarie. Ognuna si avvaleva di una vera legione di "bravi", destinati a risolvere le trattative degli affari con le armi della minaccia, del sequestro di persona e persino del delitto. Le due famiglie si contendevano il controllo esclusivo dell'altoforno di Premana, una struttura in cui lavoravano 150 persone.
Nell'Archivio di Stato sono presenti gli atti di due lunghe e complesse vicende giudiziarie. Una riguarda il procedimento per omicidio contro Giacomo Maria, accusato di aver fatto assassinare un Arrigoni, per una questione di donne. Nell'altra l'imputato è sempre Giacomo Maria, ma l'accusa questa volta degli Arrigoni è quella di essere un untore, cioè di aver mandato in giro dei monatti a ungere persone o cose con materiale infetto, per distruggere la famiglia degli Arrigoni (la peste a Milano e a Lecco era scoppiata nel 1630). · Fu il Senato di Milano che, preoccupato del diffondersi della peste, incaricò il giureconsulto Marco Antonio Bossi di condurre una dettagliata indagine. Tre monatti furono arrestati e, sottoposti a tortura, confessarono chi era il mandante. Al termine del lungo processo essi furono condannati e giustiziati, ma Giacomo Maria, grazie alle sue protezioni, riuscì a cavarsela. Il tribunale aveva deciso un supplemento di indagini dalle quali poi risultò ch'egli era stato vittima della rivalità degli Arrigoni. I quali però non si arresero e nel 1640 riuscirono finalmente a spuntarla sul Manzoni.
Ora le analogie col romanzo sono molto evidenti:
  • quasi tutti i fatti narrati sono gli stessi;
  • i luoghi sono gli stessi;
  • simili i protagonisti delle vicende e i personaggi comprimari;
  • identico il periodo storico;
  • le analogie spiccano soprattutto con la prima stesura del romanzo e con la Storia della colonna infame;
  • l'avvocato difensore di Giacomo Maria, descrivendo Emilio Arrigoni, usa delle frasi che sono le stesse che Manzoni adopera per descrivere il Conte del Sagrato in Fermo e Lucia;
  • il comportamento di Giacomo Maria è identico a quello di Don Rodrigo;
  • i racconti della peste si assomigliano;
  • la descrizione di come viene decisa la sentenza di condanna a morte per Giacomo Mora nella Colonna infame è identica a quella che dà il Bossi nel suo memoriale per la sentenza dei tre monatti.

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