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sabato 31 luglio 2010

GABRIELE D'ANNUNZIO

1.       La vita
Nato nel 1863 a Pescara, da agiata famiglia borghese, studiò in una delle scuole più aristocratiche del tempo. A soli 16 anni esordì con “Primo vere” un libretto in versi.
A 18 anni si trasferì a Roma, dove abbandonò gli studi per la vita mondana; divenne famoso per la vita e le opere scandalose, creandosi la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore che rifugge dalla mediocrità, rifugiandosi in un mondo di pura arte che ha come regola di vita solo il bello.
Nei primi anni del 90 però D. entrò in crisi e andò alla ricerca di nuove soluzioni, trovandole nel mito del superuomo (Nietzsche). Egli puntava al “ vivere inimitabile”
Una vita da principe rinascimentale che conduceva nella villa di Fiesole, tra oggetti d’arte, amori lunghi e tormentati ( Eleonora Duse), con un dispendio di denaro che egli non riusciva a controllare: Proprio questa fu la contraddizione che non riuscì a superare: egli disprezzava il denaro borghese, ma non poteva farne a meno per la sua vita lussuosa. Proprio per l’immagine mitica che voleva dare di sé, tentò anche l’avventura politica, anche se in un modo ambiguo, schierandosi prima con la destra e poi con la sinistra.
In seguito rivolse la sua attenzione anche al teatro,  poiché poteva raggiungere un pubblico più vasto rispetto ai libri.
Ma nonostante la sua fama fosse alle stelle ed il “ dannunzianesimo” stesse improntando tutto il costume dell’Italia borghese, D., a causa dei creditori, dovette fuggire dall’Italia rifugiandosi in Francia.
L’occasione tanto attesa per l’azione eroica gli fu offerta dalla I guerra mondiale
Al cui scoppio D. tornò in Italia ed iniziò una campagna interventista. Arruolandosi volontario fece imprese clamorose e combattè una  guerra eccezionale non in trincea, ma nei cieli con il nuovissimo mezzo: l’aereo.Nel dopoguerra capeggiò una marcia di volontari su Fiume dove instaurò un dominio personale. Cacciato via, sperò di riproporsi come “duce” di una rivoluzione reazionaria ma fu scalzato da Mussolini. Il Fascismo lo esaltò come padre della Patria ma lo guardò anche con sospetto confinandolo nel “Vittoriale degli Italiani”, una villa di Gardone, che egli trasformò in vero mausoleo. Qui trascorse gli ultimi anni fino alla morte nel 1938.
L’influenza di D. sulle cultura e sulla società fu lunga ed importante, lasciando un’impronta sul costume degli italiani e sulle nascente cultura di massa. 











2.       L’ estetismo e la sua crisi
2.1                L’esordio:
L’esordio di D’Annunzio avvenne sulla scia di Carducci ( “Primo Vere” e “ Canto Nuovo” si rifanno al Carducci di “Odi Barbare”, “Terra Vergine” si rifà al Verga di “Vita dei Campi”)
“Primo Vere “ è un esercizio di apprendistato. Il “Canto Nuovo” porta ai limiti estremi i temi di Carducci: il senso “pagano delle cose”, la metrica barbara. Sono presenti però spunti diversi, momenti di stanchezza, visioni cupe e mortuarie che fanno intuire come il vitalismo sfrenato celi sempre in sé il fascino della morte.
In “Terra Vergine” D. presenta figure e paesaggi della sua terra, l’Abruzzo. Però non vi è nulla della precisa indagine condotta da Verga sui meccanismi della lotta per la vita nelle basse sfere e soprattutto nulla dell’impersonalità verghiana. Qui il mondo è iddillico, non problematico, con passioni primordiali, erotismo, violenza. Così come anche in altre opere, qui è presente il compiacimento per un mondo magico, superstizioso e sanguinario.

2.2  I versi degli anni ’80 e l’estetismo
La stessa matrice irrazionalistica, tipica del Decadentismo, è evidente nella copiosa riproduzione di versi che rivela l’influenza francese. “L’intermezzo di rime”, “L’Isotteo” e “La Chimera” sono frutto dell’estetismo dannunziano in cui il Verso è tutto , l’Arte è il valore supremo. Sul piano letterario ciò dà origine ad un vero e proprio culto religioso dell’arte e della bellezza. La poesia non nasce dall’esperienza ma da altra letteratura ( classica, tradizionale, francese, inglese)
Il personaggio dell’esteta, che si isola dalla realtà meschina della società borghese, in un mondo di pura arte e bellezza, è una risposta ideologica alla crisi del ruolo dell’intellettuale, è un risarcimento immaginario alla condizione di degradazione dell’artista che D. non poteva tollerare.

2.2                Il “piacere” e la crisi dell’estetismo
D. si rende ben presto conto delle debolezze della figura dell’esteta ed avverte la sua fragilità in un mondo lacerato da forze brutali.L’estetismo entra in crisi ed il “Piacere” ne è la testimonianza.
Al centro del romanzo vi è la figura di un esteta, Andrea Sperelli, il “doppio” di D. stesso; è un giovane aristocratico ed il principio “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte” diviene una forza distruttiva.La crisi è molto evidente nel suo rapporto con le donne: è diviso fra due donne Elena, la donna fatale e Maria, quella pura. Ma l’esteta mente a sé stesso : la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco erotico sottile e perverso, e funge da sostituto di Elena, che Andrea desidera ma che lo rifiuta.Infine viene abbandonato da entrambe.
Nel romanzo l’autore è critico nei confronti del suo doppio, ma Andrea continua ad esercitare un sottile fascino sullo scrittore: quindi, pur segnando un momento di crisi, Il Piacere non rappresenta il definitivo distacco tra D’Annunzio e la figura dell’esteta.

2.4 La fase della bontà
La crisi dell’estetismo non approda subito ad una soluzione alternativa.
Al “Piacere” succedono incerte sperimentazioni. E’ una fase della cosiddetta Bontà in cui D. subisce il fascino del romanzo russo. Abbiamo “L’Innocente”, “Giovanni Episcopo”, “Il poema paradisiaco” in cui troviamo quei temi (esigenza di purezza, recupero dell’innocenza, stati di languore) che saranno ripresi dai crepuscolari.
La Bontà però è solo una soluzione provvisoria; uno sbocco alternativo alla crisi dell’estetismo sarà la lettura di Nietzsche.



3.       I Romanzi del Superuomo
 
3.1                L’ideologia superomistica

D. coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche banalizzandoli: il rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari che schiacciano la personalità, l’esaltazione di uno spirito dionisiaco, cioè di un vitalismo gioioso, libero dalla morale,il rifiuto della pietà dell’altruismo, il mito del superuomo, assumono una coloritura antiborghese, aristocratica e antidemocratica. Vagheggia l’affermazione di una nuova aristocrazia che sappia elevarsi e superiori forma di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita eroica. 

Il mito Nietzschiano del superuomo è interpretato de D. come il diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare il loro dominio sulla massa. Questo nuovo personaggio ingloba in sé l’esteta; l’artista- superuomo ha funzione di vate, ha una missione politica di guida, diversa da quella del vecchio esteta. D. non accette il declassamento dell’intellettuale e si attribuisce un ruolo di profeta di un ordine nuovo

3.2                I romanzi del Superuomo
Il romanzo “Il trionfo della morte” rappresenta una fase di transizione fra le due figure del superuomo. L’eroe Giorgio Aurispa è un esteta simile ad Andrea Sperelli ( del Piacere) che, travagliato da una malattia interiore, va alla ricerca di un nuovo senso della vita. Un breve rientro nella sua famiglia acuisce la sua crisi, perché reimmergersi nei problemi della vita familiare e soprattutto rivivere il conflitto col padre, contribuisce a minare le sue energie vitali: per cui è indotto ad identificarsi nella figura dello zio, a lui simile nella sensibilità e morto suicida.
La ricerca porta l’eroe a tentare di riscoprire le radici della sua stirpe.La soluzione gli si affaccia nel messaggio dionisiaco di Nietzsche, in un’immersione nella vita in tutta la sua pienezza, ma l’eroe non è ancora in grado di realizzare tale progetto: prevalgono in lui, sull’aspirazione alla vita piena e gioiosa, le forze negative della morte; egli al termine del romanzo si uccide, trascinando con sé la “Nemica”.
Il romanzo successivo “Le Vergini delle rocce” segna la svolta ideologica radicale, nel quale l’eroe è forte e sicuro. E’ stato definito il “Manifesto politico del Superuomo”. Esso contiene le nuove teorie dannunziane. L’eroe Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese, vuole creare il Superuomo, futuro re di Roma e d’Italia e per questo cerca nuove energie nella putredine di un mondo in decadimento.
Tutti i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di essi un’irresistibile attrazione.
Anche “Il Fuoco”( manifesto artistico del Superuomo) conferma tale sorte.
L’eroe Stelio Effrena ( il nome che evoca al tempo stesso l’idea delle stelle e quella dell’energia senza freni, è evidentemente programmatico) medita una grande opera artistica, fusione di poesia, musica, danza, in un nuovo teatro nazionale. Anche qui forze oscure gli si oppongono, anche qui per mezzo di una donna. Il romanzo non si conclude con la realizzazione del progetto dell’eroe, ma doveva proseguire con un ciclo, ma ciò non accadde.
Dopo un periodo di interruzione, D. scrisse “ Forse che si, forse che no”, in cui il protagonista Paolo Tarsis, realizza la sua volontà eroica col volo aereo. In esso l’autore celebra la macchina, simbolo della realtà moderna. Ma alla sublimazione del superuomo si oppone ancora una volta la “Nemica”, una donna sensuale e perversa.
Tuttavia l’eroe trova un’inaspettata via di liberazione e riesce a salvarsi.

3.3                Le nuove forme narrative
Tutti questi romanzi, nella loro forma narrativa, si allontanano dal modello naturalistico, andando nella direzione del romanzo psicologico ( Il Trionfo della Morte). L’intreccio si fa scarso, il racconto è percorso da una forte trama di immagini simboliche. Nelle “Vergini delle Rocce” si alter
nano parti oratorie e parti simboliste-descrittive, sfumando nel mitico e favoloso, lontanissimo dalla realtà.
Nel “Fuoco” si alternano discussioni e meditazioni, analisi psicologiche; in “Forse che si, forse che no” prevale la dimensione simbolica.

4.       Le opere drammatiche
Per D. il teatro può essere un più potente mezzo di diffusione del verbo superomistico; ad esso si accostò anche grazie ad Eleonora Duse con la quale intrattenne una lunga relazione.
Egli rifiuta il teatro borghese e realistico per un teatro di poesia, che trasfiguri la realtà, riportando in vita l’antico spirito tragico e si regga su una trama simbolica. Molte delle sue opere attingono gli argomenti dalla storia (Francesca da Rimini), o dal mito classico ( Fedra), o nel presente ( La città morta)
In queste opere ricorre costantemente la tematica superomistica però avviene sempre la sconfitta dei superuomini a causa di una donna o della meschinità borghese.
A parte, rispetto ai drammi storici o moderni, si colloca “La Figlia di Iorio”, tragedia pastorale, in cui la vicenda è collocata in un Abruzzo fuori dal tempo, magico e superstizioso: vi è il gusto tipicamente decadente per il barbarico e per il primitivo.



5.       Le Laudi
Nel campo della lirica D. vuole affidare il compito di vate a 7 libri di “ Laudi del cielo del mare della terre e degli eroi”. Nel 1903 pubblica i primi tre ( Maia Elettra Alcyone), Un quarto Merope, nel 1912. Postumo è un quinto Asterope; gli ultimi due, anche se annunciati non furono scritti.
Maia non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema di oltre 8000 versi. In essa D. adottò il verso libero; il carattere è profetico e vitalistico. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia, realmente compiuta da D.
Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime: dopo di che il protagonista si reimmerge nella realtà moderna. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza equivalente a quella dell’Ellade . Per questo il poema diventa un inno alla modernità capitalistica ed industriale, alle nuove masse operaie, docile strumento nelle mani del superuomo.
Con Maia si assiste ad una svolta: nel mondo moderno D. scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, la forza travolgente ma grandiosa del capitalismo.
Il poeta non sia contrappone più alla realtà borghese moderna, ma la trasfigura in un’aura di mito. Dietro questa celebrazione però si intravede la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale. Il poeta si fa comunque cantore di questa realtà, anche se si sente da essa minacciato e diventa protagonista di miti oscurantisti e reazionari. 
Il D. autentico è proprio quello “decadente” nel senso più stretto del termine, quello che interpreta il senso della fine di un mondo e di una cultura, che tocca i temi della perplessità, del tormento interiore, che si avventura ad esplorare le zone più oscure della psiche, che vagheggia con nostalgia una bellezza del passato avvertita come mito irraggiungibile. Proprio nelle opere che propongono  l’ideologia del superuomo, la cosa più valida è il momento in cui riaffiora l’inquietudine, l’angoscia, l’attrazione per la dissoluzione e la morte.

Il secondo libro “Elettra” , è denso di propaganda politica diretta; esso ricalca la struttura ideologica di Maia: vi troviamo passato e futuro di gloria e bellezza in contrapposizione al presente. Parte del volume è costituito dai sonetti sulla “Città del Silenzio”, antiche città italiane, dense di passato, su cui si dovrà modellare il futuro. Costante è la celebrazione della romanità in chiave eroica.




Il terzo libro “Alcyone” in apparenza si distacca dagli altri due: al discorso politico, celebrativo si sostituisce  il tema lirico della fusione con la natura. E’ il diario ideale di una vacanza estiva, da primavera a settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia a consentire la pienezza vitalistica.
Sul piano formale c’è una ricerca di una sottile musicalità e l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini corrispondenti. Alcyone è stata la più apprezzata dalla critica ed è stata definite poesia pura.
Ma l’esperienza panica del poeta non è altro che una manifestazione del superuomo: solo la sua parola magica può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa della cose.
Alcyone avrà una notevole influenza sulla lirica italiana del ‘900.



6.       Il periodo Notturno
Dopo “Forse che si, forse che no” D. abbandona il romanzo e crea un’opera che si avvicina alla novella: “La Leda senza cigno” (1913), è una nuova forma di prosa, una prosa lirica, evocativa. Dal 1913 in poi le prose saranno solo “liriche” e di “memoria”: “La contemplazione della morte”(1912), “Il Notturno”(1924), “Le faville del maglio”(1924-1928), “Il libro segreto”(1935).
Le opere, diverse tra loro, hanno tutte un taglio autobiografico, memoriale  e dal registro linguistico più misurato e meno pervaso da tensione oratoria. Per questo furono esaltate dalla critica che vi scorse un D. rinnovato, finalmente genuino e sincero: ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli, confessioni soggettive, il pensiero della morte.
Anche la struttura è nuova: non più costruzioni complesse, ma il frammento: procedere per libere associazioni, un fondere presente e passato attraverso la memoria, un mescolare il ricordo alla fantasia.
Quest’ultimo periodo viene detto “notturno”, dall’opera “il Notturno” (1916), scritta in un periodo in cui D., a causa della cecità provocata da un distacco della retina, annota impressioni, visioni e ricordi, con uno stile secco e nervoso.
Queste prose tarde hanno una tendenza al frammentismo, ma allo stesso tempo, rivelano residui superomistici, nel narcisismo e nell’autocelebrazione.





GIOVANNI PASCOLI

LA VITA

Nasce a S.Mauro di Romagna nel 1855 ed entra nel collegio dei padri Scolopi a Urbino. E’ il quarto di otto fratelli e il padre è l’amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Nel ’67 accade l’episodio che segna indelebilmente la sensibilità del piccolo Pascoli: viene assassinato il padre da ignoti, mentre ritorna a casa . Non si seppe mai chi fu l’assassino, ma il Pascoli crede di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il “cuculo”, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri. L’anno seguente muore una sorella, poi, di seguito, la madre e due fratelli. La morte della madre viene considerata dal Pascoli la tragedia maggiore, perché viene meno il nucleo familiare, il “nido”. D’ora in poi il suo proposito sarà sempre di riformare il nido originario. Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolge profondamente l’anima del Pascoli; rimane una ferita non chiusa, che si traduce in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segna il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena a cui sempre il poeta aspirerà con immutata nostalgia. L’unico rimedio al male gli appare ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini. Nello stesso tempo, nasce in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti la pace. Muore nel 1912. Viene sepolto a Castelvecchio, in una casa di campagna che dal ’95 era stata il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.Pascoli rappresenta la vera svolta della poesia italiana di fine secolo perché introduce tutta una serie di novità tematiche e stilistiche che influenzeranno i poeti di tutto il ‘900. Giustamente, quella di Pascoli è stata definita una “poesia verso il Novecento”.

LA POETICA

Il carattere dominante della poesia del Pascoli è costituito dall’evasione della realtà per rifugiarsi nel mondo dell’infanzia, un mondo rassicurante, dove l’individuo si sente isolato ma tranquillo rispetto ad una realtà che non capisce e quindi teme.
Il Pascoli esprime questa sua poetica in uno scritto del 1897 che intitola “Il fanciullino”. Egli afferma che in tutti noi c’è un fanciullo che durante l’infanzia fa sentire la sua voce, che si confonde con la nostra, mentre in età adulta la lotta per la vita impedisce di sentire la voce del fanciullo, per cui il momento veramente poetico è in definitiva quello dell’infanzia. Di fatti il fanciullo vede tutto per la prima volta, quindi con meraviglia; scopre la poesia che c’è nelle cose, queste stesse gli rivelano il loro sorriso, le loro lacrime, per cui il poeta non ha bisogno di creare nulla di nuovo, ma scopre quello che già c'è in natura. Il fanciullino è quello che parla alle bestie, agli alberi, alle nuvole e scopre le relazioni più ingegnose che vi sono tra le cose, ride e piange per ciò che sfugge ai nostri sensi, al nostro intelletto. L’atteggiamento del fanciullo gli permette di penetrare nel mistero della realtà, mistero colto non attraverso la logica, ma attraverso l’intuizione ed espresso con linguaggio non razionale ma fondato sull’analogia e sul simbolo. La poesia quindi può avere una grande utilità morale e sociale; il sentimento poetico che è in tutti gli uomini gli fa sentire fratelli nel comune dolore, pronti a deporre gli odi e le guerre. Da un lato egli concepisce la poesia come ispiratrice di amore umano, le assegna il compito di rendere gli uomini più buoni, ma il poeta non deve proporselo come fine, perché non è un oratore o un predicatore, ma ha unicamente il dono di pronunciare la parola nella quale tutti gli altri uomini si riconoscono. In definitiva il poeta è l’individuo abbastanza eccezionale che, pur essendo cresciuto, riesce ancora a dare voce al quel fanciullo che c’è in ogni uomo.L’evento centrale della sua vita, che diverrà poi materia poetica, è certamente l’uccisione del padre (di cui non fu mai trovato l’assassino) con la conseguente distruzione del, così chiamato da Pascoli “nido” familiare. A seguito di questa vicenda, la famiglia si sgretola perché anche la madre morirà di crepacuore, di lì a qualche anno, e il poeta perde quell’ambiente caldo e protettivo (da cui il nome di “nido”) che lo difendeva dalle insidie del mondo. Pascoli tentò di ricostruire il “nido” distrutto, insieme alle sorelle Ida e Maria, alle quali fu unito da un affetto morboso. Egli si ribella quando Ida si sposa, abbandonando lui e quel che restava del “nido”, e si lega con un legame ancora più forte ed esclusivo a Maria (che egli chiamava Mariù).

Il tema del “nido” costituisce uno dei veri motivi della poesia pascoliana: costantemente il poeta lo ricorda, lo rimpiange, tanto che il critico Giorgio Barberi Squarotti parla di una vera e propria regressione pascoliana verso lo stadio natale, o, meglio ancora, verso lo stadio prenatale, cioè di una regressione nel grembo materno; tornare a prima della vita vuol dire tornare a prima della storia, e dunque vivere al di fuori di quel mondo che era tanto intriso di violenza e che spaventava tanto Pascoli.
Il tema del “nido” appartiene in pieno alla poetica decadente, e precisamente a quel filone chiamato “dell’uomo senza qualità” che si contrappone ai miti dell’esteta e del super-uomo. Ma anche il “nido”, come l’esteta possiede una carica violenta, una decisa dimensione antisociale: se l’esteta disprezza il mondo borghese perché inferiore, Pascoli si rifugia nel “nido” dell’infanzia e rifiuta il mondo perché questo gli fa paura. La stessa funzione del “nido” viene svolta in Pascoli dalla campagna, che è ben diversa da quella verghiana percorsa dalla malaria, dalla dura fatica, dalle imprecazioni dei lavoratori; la campagna, in Pascoli, diventa il rifugio dalle tempeste della vita: gli alberi e le siepi frequentemente evocati nelle sue poesie rinchiudono il suo fazzoletto di terra e lo difendono dai pericoli del mondo (poetica della siepe). E’ stato notato, inoltre, come la campagna, intesa come luogo di protezione, possa essere interpretata anche come simbolo della patria.
Pascoli assunse, poi, nel corso della sua vita, delle posizioni ideologiche che appaiono in contrasto con il tema del “nido”, ma che in realtà risultano coerenti con esso, e sono precisamente il cosiddetto socialismo pascoliano e il suo tardo nazionalismo. Con un discorso pronunciato a Barga nel 1911, “La grande proletaria si è mossa”, egli prese posizione a favore della conquista coloniale della Libia, sostenendo che l’Italia, nazione povera e proletaria, aveva il diritto di conquistare terre dove mandare i suoi figli che morivano di fame, e nel mentre avrebbe anche portato civiltà in quei luoghi ancora rozzi. E’ interessante come Pascoli utilizzi in una nuova chiave il termine “proletario” (dice “Italia proletaria”) spostando la lotta di classe dagli uomini alle nazioni. Quanto al socialismo pascoliano, poi, esso è da intendersi non in chiave scientifico-politica, ma come umanitarismo, come desiderio di fratellanza universale. Tuttavia, sia il socialismo, sia il nazionalismo, non contrastano con il tema del “nido”, in quanto tali ideologie non fanno che ampliare la dimensione del nido dall’ambito familiare a quello della nazione, e più ancora a quello dell’intera umanità. Tutti gli uomini, insomma, dovrebbero vivere uniti, solidali, immuni dall’odio e dalla violenza.
Le opere del Pascoli
La prima raccolta del Pascoli uscì nel 1891 con 22 liriche con il nome di "Myricae". Questo nome, preso dalla 4° bucolica (componimento poetico spesso in forma di dialogo) di Virgilio. La raccolta si caratterizza dalla presenza di argomenti semplici e modesti, che spesso ricadono sul tema della famiglia e della vita campestre. Nelle opere del Pascoli il paesaggio assume un forte significato, evidenziando anche l'animo dello scrittore stesso. Le due poesie certamente più importanti di questa raccolta sono "X agosto" e "Lavandare".
La prima tratta della morte del padre, avvenuta proprio il 10 agosto dove il cielo, secondo il poeta, piange con le proprie stelle la morte di suo padre e la malvagità del mondo, atomo opaco del Male. In questa poesia è forte la presenza del focolare domestico, della famiglia e del nido famigliare.
La seconda invece è ambientata in novembre, mese caro al poeta in quanto presenta giorni nebbiosi avvolti nel mistero, in un'atmosfera quasi sospesa tra sogno e realtà e dove un aratro abbandonato in mezzo a un campo mezzo arato, assume il significato simbolico di chi, come la lavandara, ha perso l'affetto che dava un senso alla propria vita. E' chiaro che nella solitudine della donna il poeta riflette la propria.
D’altro canto lo stesso Pascoli era consapevole del rischio di una commozione eccessiva, tanto che nella prefazione a “Myricae” scrive che forse in quella raccolta c’era qualche lacrima di troppo, qualche singhiozzo che egli non era riuscito a frenare.Nelle opere successive a “Myricae” permangono gli stessi temi già individuati, che sono i ricordi assillanti dell’infanzia e lo smarrimento dinanzi al mistero. Con i “Poemetti” e i “Nuovi Poemetti”, Pascoli modifica in parte le proprie scelte stilistiche e si indirizza verso componimenti più ampi, nei quali passa in rassegna l’alternarsi delle stagioni in campagna, con le diverse attività svolte dai contadini. E’ logico che qui la campagna non può essere per lui un rifugio di quiete, ma è un luogo nel quale il poeta proietta le sue inquietudini, per cui le apparenze familiari si caricano di significati inquietanti, misteriosi, indecifrabili. La raccolta “I canti di Castelvecchio” (Castelvecchio era la località toscana in cui Pascoli aveva la casa) è quella più vicina a “Myricae” perché anch’essa è costituita da liriche brevi, tramate da frequenti ricordi familiari. C’è, in particolare, un nucleo di liriche, dal titolo “Ritorno a San Mauro”, che raccoglie i componimenti specificatamente dedicati al recupero familiare: il poeta tenta di rientrare nel mondo dell’infanzia ma ne viene respinto: il suo Eden è perduto per sempre.
L’ultima raccolta di rilievo sono “I poemi conviviali”, del 1904. Si tratta di poemetti in cui Pascoli rievoca figure celebri della classicità greco-romana, ma finisce per proiettare anche nel passato la stessa inquietudine del presente, per cui avviene che figure eroiche come Ulisse o Alessandro Magno divengano persone tormentate che si interrogano sul senso della vita (capovolgimento delle figure classiche).
Nelle opere successive, “Odi e Inni” ,Pascoli si atteggia a cantore delle glorie della patria, ma si inoltra per un sentiero estraneo alla poetica del fanciullino, che è quella per lui più autentica, e la poesia che ne risulta è densa di retorica e ha il solo valore di testimonianza culturale.
Da citare, poi, i numerosi “Poemetti latini” che gli permisero di vincere il primo premio al concorso di poesia in lingua latina ad Amsterdam.
Con Pascoli il verso si spezza in numerose pause, si dilata attraverso i molti enjambement, si carica di dolente musicalità. Frequentissimo è l’uso delle analogie e delle sinestesie implicite nella poetica del poeta-fanciullo che consce la realtà in modo ingenuo e irrazionale, scoprendo legami che la ragione non riesce a cogliere; frequenti sono anche le figure di suono: onomatopee e fonosimbolismi (i fonosimbolismi sono parole che non si limitano a riprodurre un suono della realtà, ma acquistano un valore autonomo, che diventa emblema del mistero angoscioso che circonda l’uomo).
Ricordiamo, a questo proposito, il celebre giudizio di Gianfranco Contini il quale parla di un triplice linguaggio pascoliano. Egli dice che Pascoli usa: 1) un linguaggio grammaticale, che è la lingua italiana normale; 2) un linguaggio pre-grammaticale, che è la lingua che viene prima della grammatica, quella costituita dalle onomatopee e dai fonosimbolismi; 3) un linguaggio post-grammaticale, quello che viene dopo la grammatica ed è costituito dalle lingue speciali, come i carmina o il dialetto della Garfagnana, la regione in cui si trova Castelvecchio.

IL VERISMO E GIOVANNI VERGA

- Dal Naturalismo in Francia al Verismo in Italia -

La letteratura europea, a partire dal 1850, è caratterizzata dalla diffusione del movimento chiamato Naturalismo, che sorge in Francia e ha come teorico e maestro Emile Zola.
Egli fissa i principi del cosiddetto romanzo sperimentale. Infatti, se le opere della narrativa tradizionale erano interamente costruite dalla mente dell’autore, il nuovo romanzo deve porsi come documento oggettivo in cui l’autore tende a scomparire. Lo stesso Zola definisce il Naturalismo come “il ritorno alla natura”, cioè il ritorno alla realtà dopo il predominio dell’idea nell’età romantica. Questo ritorno alla natura comporta grande attenzione verso gli aspetti più umili del reale. Per questo il lessico e lo stile ricalcano la realtà, spesso tramite l’uso delle lingue dialettali. A calcare la scena letteraria è la plebe parigina, i minatori, il proletariato, le cui vicende sono riportate al fine di evidenziare gli aspetti negativi della società. Infatti Zola non è solo il romanziere realista, ma anche lo scrittore sociale  che lotta contro le pagine del suo tempo in nome del progresso e dell’umanità.
L’opera di Zola si diffondere in Italia dai primi del 1870 e grazie alla personale rielaborazione di due intellettuali meridionali, Capuana e Verga, è tradotta in una teoria letteraria coerente ed unitaria denominata Verismo. 
Rispetto al naturalismo francese i veristi respingevano la subordinazione della letteratura all’impegno politico e civile, attenuando il concetto di scientificità dell’opera letteraria.

La tecnica narrativa
Il Verga applica coerentemente i principi della sua poetica nelle sue opere veriste, e ciò dà origine ad una tecnica narrativa profondamente originale e innovatrice. Nelle sue opere l’autore si “eclissa”, si cala “nella pelle” dei personaggi, vede le cose “con i loro occhi”, e le esprime “con le loro parole”. A raccontare infatti non è il narratore “onnisciente” tradizionale, che, come nei romanzi di Manzoni, riproduce il livello culturale, i valori, i principi morali, il linguaggio dello scrittore stesso, ed interviene continuamente nel racconto ad illustrare gli antefatti o le circostanze dell’azione, a tracciare il ritratto dei personaggi, a spiegare i loro stati d’animo e le motivazioni psicologiche dei loro gesti, a commentare e giudicare i loro comportamenti, a dialogare col lettore. Il narratore si mimetizza negli stessi, adotta il loro modo di pensare e di sentire, agli stessi principi morali, usa il loro stesso modo di esprimersi. È come se a raccontare fosse uno di loro, che però non compare direttamente nella vicenda, e resta anonimo.
Un esempio chiarissimo è fornito dall’inizio di Rosso Malpelo, che è la prima novella verista pubblicata dal Verga (1878) e che inaugura la nuova maniera di narrare: “Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo”.  La logica, che sta dietro questa affermazione non è certo quella di un intellettuale borghese quale era il Verga: fa infatti dipendere da una qualità essenzialmente morale («malizioso e cattivo») un dato fisico, naturale, i capelli rossi; rivela cioè una visione primitiva e superstiziosa della realtà, estranea alle categorie razionali di causa ed effetto. E tutta la vicenda è narrata da questo punto di vista: è come se a raccontare non fosse lo scrittore colto, ma uno qualunque dei vari minatori della cava in cui lavora Malpelo.

L’ideologia verghiana

A questo punto è inevitabile chiedersi: che cosa induce Verga a formulare questo principio dell'impersonalità e ad applicarlo così rigorosamente?  Una risposta è data da Verga stesso in un passo fondamentale della Prefazione ai Vinti: “Chi osserva questo spettacolo [della “lotta per l’esistenza”] non ha il diritto di giudicarlo. Verga ritiene dunque che l’autore debba “eclissarsi” dall’opera, non debba intervenire in essa, perché non ha il diritto di giudicare la materia che rappresenta.
Alla base della visione di Verga stanno posizioni radicalmente pessimistiche: la società umana è per lui dominata dal meccanismo della “lotta per la vita”, un meccanismo crudele, per cui il più forte schiaccia il più debole. Gli uomini sono mossi non da motivi ideali, ma dall’interesse economico, dalla ricerca dell’utile, dall’egoismo, dalla volontà di sopraffare gli altri. È questa una legge di natura, universale, che governa qualsiasi società, in un tempo e in ogni luogo, e domina non solo le società umane, ma anche il mondo animale e vegetale. Come legge di natura, essa è immodificabile: perciò Verga ritiene che non si possono dare alternative alla realtà esistente, né nel futuro, né nel passato, nel ritornare a forme superate dal mondo moderno.
. La tecnica impersonale usata da Verga non è dunque frutto di una scelta casuale, ma scaturisce dalla sua visione del mondo pessimista, ed è per lui il modo più adatto per esprimerla. Proprio il pessimismo consente a Verga di cogliere con grande lucidità ciò che vi è di negativo in quella realtà. Il pessimismo non è dunque un limite della rappresentazione verghiana, ma è la condizione del suo valore conoscitivo e critico.



Il periodo preverista

Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia di agiati proprietari terrieri. I suoi studi superiori non sono regolari: non termina i corsi alla facoltà di legge a Catania, preferendo dedicarsi al lavoro letterario e al giornalismo politico. Convinto che per diventare uno scrittore autentico doveva liberarsi dai limiti della cultura provinciale, nel 1865 su trasferisce a Firenze. Pubblica nel 1866 “Una peccatrice”, romanzo autobiografico che con toni enfatici e melodrammatici narra la storia di un intellettuale piccolo borghese di Catania, che conquista il successo e la ricchezza ma vede inaridirsi l’amore per la donna adorata e ne causa il suicidio. Nel 1871 termina l’opera “Storia di una capinera”, romanzo sentimentale e lacrimevole, su un amore impossibile e una monacazione forzata. A questo romanzo polemico, seguono nel 1875, i romanzi d’analisi delle passioni  mondane: “ Eros” sul progressivo inaridirsi di un giovane aristocratico, corrotto da una società raffinata e vuota.

L’approdo al verismo: ”Vita dei campi”
Verga fin dai suoi primi scritti si proponeva di dipingere il vero, ma semplicemente non possedeva ancora i mezzi adatti per farlo. L’approdo al verismo non è un’inversione di tendenza, ma la conquista di mezzi concettuali e stilistici più maturi: la concezione materialistica della realtà e l’impersonalità.
Sull’adozione del nuovo modello narrativo, esercita un influsso determinante Zola, in particolare “L’Assommoir”, per la sua ricostruzione di ambienti e psicologie popolari, rappresentati al di fuori di ogni idealizzazione e per il suo linguaggio che riproduceva il gergo dei sobborghi parigini.
La svolta verista, dopo “Rosso Malpelo”, prosegue con una serie di racconti raccolti nel volume “Vita dei campi” del 1880: Cavalleria Rusticana e La Lupa sono i più noti: Anche in questi racconti spiccano figure caratteristiche della vita contadina siciliana e viene applicata la tecnica narrativa dell’impersonalità, che consiste nell’eclissi dell’autore e nella regressione della voce narrante entro il punto di vista del mondo popolare. Accanto alla scabra rappresentazione veristica e pessimistica del mondo rurale, in tali novelle si trova ancora traccia di un atteggiamento romantico, nostalgico di un mondo mitico, dominato da passioni volente  e primitive, un paradiso perduto di innocenza e autenticità che si pone in antitesi con l’artificiosità della vita borghese e cittadina. Insomma è ancora in atto nell’autore la contraddizione tra le tendenze romantiche della sua formazione e le nuove tendenze veristiche che lo inducono a riconoscere come a dominare pure il mondo rurale è la legge della lotta per la vita.Tale contraddizione è superata nei Malavoglia.

Il ciclo dei “Vinti” e  “I Malavoglia”

Parallelamente alle novelle Verga concepisce il disegno di un ciclo di romanzi, con la volontà di tracciare un quadro sociale, passando in rassegna tutte le classi, dai ceti popolari, alla borghesia di provincia, all’aristocrazia. Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza, che lo scrittore ricava dalle teorie di Darwin sull’evoluzione delle specie animali ed applica alla società umana: tutta la società, ad ogni livello, è dominata  da conflitti di interesse, ed il più forte trionfa, schiacciando i più deboli. Verga però non si sofferma sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i vinti. Il primo romanzo del ciclo dei “Vinti” è “I Malavoglia”, del 1881 , la storia di una famiglia di pescatori siciliani. E’ il romanzo che apre il ciclo verghiano de I Vinti e che per l'esemplarità delle vicende narrate e per l'originalità della tecnica e dello stile rappresenta la migliore realizzazione della narrativa verista. Trama.Nel paesino siciliano di Acitrezza, popolato di pescatori e contadini, si svolge la storia del fatale disfacimento della famiglia dei Toscano, detti «Malavoglia», i quali possiedono una casa («la casa del nespolo») e una barca («la Provvidenza»).Il vecchio padron 'Ntoni, il patriarca della famiglia, nel tentativo di sollevarne le sorti economiche acquista a credito un carico di lupini per tentarne il commercio.Ma il naufragio della barca, e con esso la perdita del carico e la morte di Bastianazzo (figlio di padron 'Ntoni e padre di cinque figli), dà il via ad una lunga catena di disgrazie.Per pagare il debito dei lupini «la casa dei nespolo» viene venduta e così la famiglia si smembra: Luca muore in guerra (Lissa, 1866), il giovane 'Ntoni si dà al contrabbando, Lia si dà alla prostituzione ed infine padron 'Ntoni muore.  Soltanto Mena e Alessi, il quale con il suo duro lavoro riuscirà a riscattare «la casa del nespolo», si salvano dalla rovina.
Il tema della vicenda è la dolorosa esperienza di sofferenze e di lutti di una famiglia di pescatori che l'ansia del miglioramento economico porta alla dissoluzione.  L'idea che lo ispira esprime il pessimismo verghiano: per quanto gli uomini si affannino e lottino alla ricerca dei meglio, essi non possono sfuggire all'inflessibilità del destino.  A chi tenta - come i Malavoglia - di uscire dalla propria condizione è riservata una catena di miserie e di lutti. L’unico spiraglio di speranza è dato dal rispetto della sacralità dei valori atavici: per chi resta fedele ai valori della casa e della famiglia (l'«ideale dell'ostrica») e rinuncia alla lotta per il progresso esiste una possibilità di salvezza, che coincide con la rassegnazione e l'accettazione dell'immobilismo sociale.
Lingua e stile.  La novità maggiore del romanzo è l'adozione di una tecnica narrativa del tutto nuova e antiletteraria.  Verga reinterpreta il canone verista dell'impersonalità con una soluzione stilistica che gli consente di non  tradire parole e pensieri dei suoi personaggi: egli infatti scompare nella voce dei personaggi stessi o nel coro dei parlanti popolari (una voce interna al paese e alla storia) attraverso l'adozione del loro lessico, delle loro strutture sintattiche, dei loro proverbi. L'adesione al loro mondo morale risulta così totale, e da essa scaturisce l'originalità e l'espressività dello stile verghiano.
Criterio unificante è il principio della lotta per la sopravvivenza. Verga non intende soffermarsi sui vincitori di questa guerra universale, ma sceglie come oggetto della sua narrazione i “vinti”.
Risulta una particolare configurazione della struttura romanzesca, una costruzione bipolare. Si tratta di un romanzo corale, popolato di personaggi, senza che spicchi un protagonista. Ma questo “coro” si divide nettamente in due: da un lato si collocano i Malavoglia, e alcuni personaggi a loro collegati, che sono caratterizzati dalla fedeltà ai valori puri; dall’altro la comunità del paese, pettegola, cinica, mossa solo dall’interesse. Questo gioco di punti di vista ha una funzione importantissima. L’ottica del paese ha il compito di straniare sistematicamente i valori ideali proposti dai Malavoglia. Quei valori, onestà, disinteresse, altruismo, visti con gli occhi della collettività appaiono “strani”, non vengono compresi, anzi vengono stravolti e deformati.
Nel giovane ‘Ntoni si incarnano le forze disgregatrici della modernità. Egli è uscito dall’universo del paese, ha  conosciuto la metropoli Napoli e non può più accettare l’immobilità del paese, rassegnandosi a un’esistenza di fatiche e miserie. Emblematico è il conflitto con suo nonno che rappresenta l’attaccamento ai valori tradizionali, che consente il pignoramento della casa per mantenere fede alla parola data e quindi contribuisce a causare la rovina della famiglia.
Il romanzo si chiude con la partenza di ‘Ntoni dal villaggio: il personaggio che ha messo in crisi il sistema si allontana per sempre verso la realtà e il progresso, dalle grandi città. Il suo distacco è l’addio al mondo arcaico e ne sancisce la sconfitta, la scomparsa, segnando il passaggio dal per-moderno al moderno. Il suo percorso sarà continuato dal dinamismo e dall’intraprendenza di Gesualdo, tipico esponente moderno.



Dai “Malavoglia” al “Gesualdo”

Tra il primo e il secondo romanzo del ciclo dei “Vinti” passano otto anni. Nel 1883 escono le “Novelle rusticane”, che ripropongono personaggi e ambienti della campagna siciliana, in una prospettiva più amara e pessimistica, ove in primo piano è il dominio dei momenti economici dell’agire umano. “Mastro don Gesualdo” esce nel 1889.
Gesualdo Motta è un muratore che, mosso dalla bramosia della ricchezza («la roba»), dopo anni di duro lavoro e di sacrifici riesce a costruirsi una notevole fortuna.
Sposatosi con Bianca Trao, discendente di una nobile famiglia in decadenza, non riesce però a farsi accettare da un mondo in cui lo colloca la sua ricchezza ma che non è il suo e che lo rifiuta.  La stessa moglie e la figlia Isabella gli negano il loro affetto.
Vittima della sua sete di denaro, è relegato dal disprezzo dei familiari nella solitudine e finisce squallidamente i suoi giorni abbandonato da tutti.
E’ la storia dell’ascesa sociale di un muratore che, con la sua intelligenza e energia instancabile, accumula enormi ricchezze, ma va incontro ad un tragico fallimento nella sfera degli affetti familiari.
Verga resta fedele al principio dell’impersonalità, per cui il narratore, pur senza coincidere con unpreciso personaggio, deve essere interno al mondo rappresentato. Però nel nuovo romanzo il livello sociale di questo mondo, si è elevato rispetto ai Malavoglia: non si tratta di un ambiente popolare, di contadini, operai, pescatori, ma di una ambiente borghese ed aristocratico. Di conseguenza anche il livello del  narratore si innalza, e ciò fa sì che torni a coincidere con quello dell’autore reale. Ovviamente rimane la fedeltà al principio dell’eclissi dell’autore e quindi nessuna informazione viene data al lettore sugli antefatti, sulle storie dei personaggi.
Il Gesualdo ha invece al centro una figura di protagonista, che si stacca nettamente dallo sfondo popolato di figure. E’ infatti la storia di un individuo eccezionale, della sua ascesa e della sua caduta. La narrazione si focalizza su di lui.  Il punto di osservazione dei fatti coincide con la sua visione. Lo strumento di questa focalizzazione è il discorso indiretto libero, mediante cui sono riportati i pensieri del protagonista.
Inoltre nel Gesualdo scompare la bipolarità tra personaggi depositari dei valori e rappresentanti della legge della lotta per la vita, che caratterizzava  Malavoglia. Il conflitto tra i due poli passa dentro un unico personaggio. Pur dedicando tutta la sua vita e tutte le sue energie alla conquista della “roba”, Gesualdo conserva in sé un bisogno di relazioni umane autentiche: ha il culto della famiglia, rispetta il padre e aiuta i fratelli, ama la moglie e la figlia, è generoso con gli altri: Ma non arriva mai fino in fondo a praticare i valori. La roba è il fine primario della sua esistenza, e ciò lo porta ad essere disumano, come quando sfrutta senza pietà i suoi lavoranti. Il pessimismo di Verga è diventato assoluto, nel quadro desolato della lotta per la vita non ci sono più personaggi positivi.
Lo scrittore presenta l’accanimento del suo eroe nell’accumulare ricchezze in una luce critica e negativa, ma senza adottare un atteggiamento moralistico. La “religione della roba” è di Gesualdo, non di Verga. L’autore riconosce quanto di eroico vi è nello sforzo di Gesualdo che dimostra ferrea volontà, capacità di sacrificio personale, vivida intelligenza nel progettare, calcolare. Però Verga rappresenta soprattutto il rovescio negativo di tutto ciò: L’alienazione nella “roba”, la durezza disumana le sofferenze provocare, l’insensamento di una fatica che attira solo odio e dolore, e ha come unico sbocco la morte. La lotta per la ricchezza ha come fine il fallimento esistenziale. Gesualdo è un vincitore materialmente, ma è un vinto sul piano umano.

L’ultimo Verga

Dopo il Gesualdo, Verga lavora al terzo romanzo del ciclo “ La duchessa de Leyra”, ma il romanzo non sarà mai portato a compimento. Tra le ragioni dell’interruzione accanto all’inaridimento dell’ispirazione e alla stanchezza dello scrittore ormai vecchio, va annoverata la difficoltà di affrontare col metodo prescelto gli ambienti dell’alta società e le psicologie complesse e raffinate, e infine lo stesso logoramento dei moduli veristi
Dopo il 1903 lo scrittore si chiude in un silenzio totale. La sua vita è dedicata alla cura delle sue proprietà agricole, ed è ossessionata dalle preoccupazioni economiche. Muore nel gennaio 1922.


ALESSANDRO MANZONI

Vita e opere di Alessandro Manzoni

Nasce a Milano nel 1785 da un padre di recente nobiltà, Pietro Manzoni, e da Giulia Beccaria (figlia del celebre Cesare Beccaria, autore Dei delitti e delle pene, contro la pena di morte e le torture). Il figlio Alessandro iniziò a studiare presso collegi religiosi, ma a 16 anni scrive un poemetto, di ispirazione giacobina, Il trionfo della libertà, dimostrando che l'educazione religiosa ricevuta in quei collegi non aveva avuto alcun effetto su di lui. La sua prima formazione intellettuale fu piuttosto razionalistica e illuministica, anticlericale, influenzata dalle idee che l'impresa napoleonica trapiantò in Italia. In particolare, egli ha ben chiaro, che il poeta deve avere una funzione pedagogica o educativa, pratica e moralizzatrice, strettamente legata alle vicende storiche.
Nel periodo giovanile l'opera più significativa del Manzoni è il Carme in morte di Carlo Imbonati, ove si esalta la funzione dell'arte volta alla formazione dell'uomo morale (disposto al sacrificio, interiormente libero, virtuoso, ecc.) e dove si rifiuta nettamente la mitologia in uso in molta poesia del suo tempo.
A Parigi, dal 1805 al 1810, Manzoni frequenta i circoli letterari e culturali in cui domina la filosofia razionalista e materialista del Settecento, e sposa nel 1808 Enrichetta Blondel, di religione calvinista, che lo porterà, in seguito, a rivedere i suoi giudizi critici verso la religione, tanto che  nel 1810 il Manzoni decide di convertirsi al cattolicesimo, coinvolgendo in questa decisione anche la moglie.
Appena convertito, il Manzoni decide di lasciare per sempre Parigi  e, rientrato a Milano, vi rimane quasi ininterrottamente dal 1810 alla morte.

Le opere minori

Nei quattro Sermoni il poeta satireggia la corruzione dei costumi familiari, la sfrontatezza delle persone arricchite, la facile e ambigua fortuna degli ambiziosi favoriti dalla corrotta vita politica. In morte di Carlo Imbonati il poeta immagina apparirgli in sogno il conte il quale dopo aver parlato del mondo pieno di malvagità ed aver dichiarato il suo amore per Giulia Beccaria indica al giovane quali norme di vita deve tenere sempre presenti: modestia, dignità, e possesso della virtù.
Gli Inni Sacri del Manzoni sono in totale cinque più un piccolo frammento, essi sono: La Resurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e la Pentecoste. In essi il poeta celebra la recuperata fede, la pietà umana la carità e l'uguaglianza.

Le tragedie

Il Conte di Carmagnola, la vicenda è posta nel '400 all'epoca delle contese tra Venezia e Milano e s'incentra sulla figura di un capitano di ventura del tempo Francesco Bussone, conte di Carmagnola, già a servizio dei visconti di Milano e passato poi alle dipendenze della repubblica di Venezia. La tragedia inizia appunto con l'elezione del Carmagnola a condottiero delle forze venete non senza contrasti e sospetti da parte del Senato che anzi li acuiscono dopo la vittoria ottenuta nella battaglia di Maclodio contro i milanesi per l'eccessiva generosità mostrata dal condottiero verso i prigionieri tanto che il Carmagnola viene richiamato a Venezia e lì condannato a morte.
Adelchi è ambientata in Italia nel periodo della dominazione Congobarda e dei conflitti con i franchi di Carlo Magno. La storia inizia quando Ermenguarda figlia di Desiderio re dei longobardi ritorna presso il padre Pania perché ripudiata dallo stesso Carlo Magno. Un ambasciatore di quest'ultimo intima il re straniero di liberare i territori pontifici occupati, ma desiderio accanto al suo figlio Adelchi trascina gli italiani in una feroce guerra, ma Carlo Magno ha la meglio contro Desiderio attaccandolo sulle Alpi e a sconfiggerlo.

Le odi

Marzo 1821, fu composta per i moti del 1821 in Piemonte quando si aspettava che i Piemontesi avrebbero liberato la Lombardia insorta. Ma come si sa, il moto del Santarosa fallì e il Manzoni fu costretto a non pubblicare l'ode.
Il 5 Maggio fu composta in tre giorni nel luglio 1821 quando arrivò a Milano la notizia della morte di Napoleone. Il 5 Maggio rappresenta uno dei vertici più alti della poesia Manzoniana.

 

Ideologia e Poetica

Manzoni è il rappresentante più significativo del movimento romantico italiano. In lui si realizza la sintesi delle idee illuministiche con quelle cristiane. Vi è quindi il rifiuto del materialismo ateo di Foscolo e Leopardi, ma non quello delle idee illuministiche di giustizia, libertà, uguaglianza, fraternità, le quali però vengono per così dire unite da una religiosità cattolico- giansenista.
L'idea religiosa dominante è quella di provvidenza, grazie alla quale anche il male -secondo il Manzoni- può essere ricompreso in una visione più globale della storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina. Chi vuole compiere il male è guardato dal Manzoni non con disprezzo ma con ironia, appunto perché il credente sa in anticipo che il corso della storia non può essere modificato dalle singole azioni negative degli uomini. Ovviamente per il Manzoni gli uomini non devono attendere passivamente la realizzazione del bene, ma devono avere consapevolezza, che la realizzazione del bene dipenderà dai tempi storici della provvidenza più che dalla loro volontà. Senza questa consapevolezza gli uomini tenderebbero ad attribuire a loro stessi la causa di ogni bene, il che li porterebbe facilmente a ricadere nel male.
Sul piano poetico, Manzoni rifiuta categoricamente ogni mitologia, ogni fantasia che non abbia riscontri reali, ogni imitazione dei classici greco-romani. Accetta la fusione della storia con la poesia (di qui ad es. il concetto di "romanzo storico"), perché se la storia racconta la verità oggettiva degli avvenimenti, la poesia può raccontare la verità soggettiva dei singoli protagonisti. La letteratura deve avere - questa è la sua formula più riuscita - l'utile per scopo, il vero per soggetto e l'interessante per mezzo. È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. Il vero storico - per il Manzoni - è sempre quello che desta maggior interesse. L'arte quindi avrà un valore educativo se sarà finalizzata alla comprensione della verità storica . Scopo del romanziere è quello di saper trarre dal vero reale il vero ideale, senza alterare i fatti storici, ma riservandosi uno spazio (il coro) in cui poter parlare personalmente, rendendosi interprete dei sentimenti morali dell'umanità.

Nel teatro Manzoni propone l'abolizione delle unità aristoteliche di tempo e luogo, salvando solo quella di azione. Le due unità erano rigorosamente rispettate nel teatro italiano perché si credeva, in tal modo, di poter salvaguardare il principio di verosimiglianza dell'azione degli attori. Trasportare da un luogo all'altro gli avvenimenti o prolungare l'azione aldilà di un giorno, si pensava che togliesse allo spettatore la convinzione (l'illusione) di essere direttamente coinvolto per 2 o 3 ore nell'azione degli attori. Il Manzoni invece dà per scontato che lo spettatore sappia di assistere a una finzione (il teatro stesso di per sé è illusione), per cui lo spettatore - secondo lui - non ha difficoltà ad accettare il susseguirsi d'avvenimenti concatenati che accadono in tempi e luoghi diversi.
Tuttavia, poco dopo aver scritto i Promessi sposi, il Manzoni nega l'utilità del romanzo storico, sostenendo che la verità che la storia ci fa conoscere è sufficiente; per cui o si fa storia o si fa invenzione.





Anche Alessandro Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue idee sul questo movimento dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D'azeglio nel 1823 e pubblicata senza il suo consenso nel 1846. Egli ritiene assurdo l'uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia neoclassica, perché crea una letteratura d'evasione, elaborata secondo l'imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei classici. Invece l'opera d'arte deve essere educativa, cioè deve aiutare l'uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive. In questo testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco la sua concezione poetica: l'opera letteraria ha "l'utile per iscopo, il vero per oggetto e l'interessante per mezzo".
È questa un'affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova nella sostanza. L'utile coincide con la moralità in senso cristiano ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle coscienze; l'interessante viene a coincidere con la scelta stessa dell'argomento da trattare, che deve restare nell'ambito della meditazione sull'uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità del Romanticismo lombardo, che, erede dell'Illuminismo, non lo sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta all'Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il sentimento, per rendere più completa la visione dell'uomo. In nome della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento.
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non più imitati, perché l'opera d'arte nasce strettamente congiunta con lo spirito di un'epoca, che è irripetibile. Infine anche la Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione.
L'esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c'è di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza nasconderlo, un preciso intendimento patriottico-risorgimentale che emerge dalle pagine del periodico Il Conciliatore. È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal conte Federico Confalonieri (1785-1846), che collaborano anche con interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi dell'economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi (1761-1835) e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-1842), scienziati come il medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo del periodico, "Conciliatore", non è casuale: nasce dall'intenzione di mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio alla luce dell'evidente intento patriottico, che intervenga l'occhio vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al giornale. L'impegno sociale del Conciliatore, che mira alla "pubblica utilità", istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla pedagogia all'agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla linea del Caffè, del quale, peraltro, i "conciliatori" si considerano eredi e prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in Lombardia. C'è quanto basta per indurre l'Austria a sopprimere il giornale e costringere al silenzio i collaboratori con l'intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo Silvio Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece grande scalpore e rappresentò per l'Austria una notevole sconfitta.

Gli anni del "periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui troni degli antichi sovrani, "spazzati via" dalla conquista francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei, si formano società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali, auspicando l'indipendenza e l'unificazione delle regioni italiane: esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi civili. Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante patriottico, perché non invita all'azione, rappresenta una riflessione sul rapporto fra l'uomo e la storia. Manzoni introduce il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come l'esilio di Napoleone, avvicinano l'uomo alla fede e gli fanno conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza dell'anima.
Con la scrittura delle tragedie Il conte di Carmagmola e Adelchi, si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il fondamento della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni offre un vero saggio di metodologia. Egli sostiene che l'unità d'azione non corrisponde a un singolo avvenimento, ma a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni (come quello di causa ed effetto). Collante che garantisce l'unità dell'azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto per i fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei personaggi, così come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in seguito a una severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l'eco dell'insegnamento dello Schlegel che costituisce il punto fondamentale della poetica manzoniana: il rispetto della verità storica è garanzia della validità morale ed estetica dell'opera d'arte: l'unità d'azione, dunque, nasce dalla capacità dello scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il senso più alto. Si noterà anche che non è estranea, soprattutto in quest'ultima implicazione, la visione religiosa dell'autore.

La corrente romantica e il Manzoni

Del Romanticismo il Manzoni è indubbiamente uno tra i maggiori esponenti a livello europeo, anche se spesso gli viene attribuito un legame con la corrente settecentesca dell'Illuminismo, il movimento antagonista per eccellenza della corrente romantica. In effetti vi sono parecchie analogie tra alcune ideologie del poeta e gli illuministi, dovute specialmente agli intellettuali di quel periodo che frequentò giovanissimo, per il resto, la formazione che ebbe in seguito, è strettamente romantica.
Intanto per l'originalità e l'unicità dei componimenti, che non lasciano spazio solo ed esclusivamente a fredde strutture razionali definite, né la loro esistenza presuppone un preciso scopo strumentale; tutte le opere nascono sotto la spinta di particolari sentimenti, siano essi rabbia, tristezza, felicità, voglia di libertà, amore per la patria. Oltre a questo, l'uomo di cultura romantico, non appartiene più alla cosiddetta classe aristocratica, o meglio, non solo alla classe privilegiata, bensì alla borghesia, la classe emergente che ha trovato nel sapere il suo riscatto da una società che voleva gli uomini disposti e inquadrati secondo certi canoni che impedivano loro qualunque tentativo di uscirne fuori.
Il borghese non accetta un'esistenza delimitata e razionale, ma si lascia guidare dal sentimento: lotta per la libertà perché riconosce di averne il diritto, ama la patria perché la sente propria, ha un'istruzione perché solo così può continuare a riguardarsi e difendere ciò che gli spetta.
Inutile sottolineare che il Manzoni incarna l'ideale del Romanticismo da ogni punto di vista, anche Umberto Saba, in seguito, ne sottolineò l'unicità definendolo il poeta "onesto", unica eccezione per l'interesse storico.
L'importanza della storia nel Romanticismo crebbe in modo impressionante tra i letterati, ma egli sembrò non interessarsi; infatti non fu mai un grande storico, non ebbe mai gli interessi profani dei "colleghi". Piuttosto la storia costituì il campo delle osservazioni morali, il paragone dell'agire umano, la storiografia manzoniana è molto particolare per una diffusa religiosità che lo conduce intendere e spiegare il male, la perversità e le calamità. Naturalmente i romantici consideravano inspiegabile l'origine del bene e del male così come ritenevano Dio l'Essere esistente a priori, dunque la pretesa del Manzoni era inammissibile.
La varietà di definizioni che il Romanticismo acquistò, è dovuto ,in parte, anche alla diversità di stile dei suoi appartenenti, sia in Italia, sia in tutta Europa, ecco perché ogni paese può benissimo affermare di possedere un proprio Romanticismo indipendente, che con gli altri condivide solamente alcuni punti di riferimento, identici per tutti.
Sicuramente si deve tantissimo a questa corrente, un solo secolo ha modificato scuole di pensiero dalle radici millenarie, a volte calibrandone meglio l'ottica e allargando gli orizzonti alla modernità dei tempi attuali, e si deve riconoscere anche un grande merito a molti intellettuali che, proprio come il Manzoni, sono stati i precursori e i promotori del cambiamento.

L'Europa e il romanzo

Nell'Europa del primo Ottocento, invece, il romanzo si è affermato pienamente da circa un secolo. Compare in Francia nel 1678 con la commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La Fayette: ambientato a metà del Sedicesimo secolo, alla corte di Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso dell'onore e del dovere. Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie, sposa la sua amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla base, sta il meccanismo tipico dei romanzi d'avventura. D'altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell'amore contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile di eroina romantica nella figura di Giulia, figlia obbediente e moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle difficoltà a cui l'uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano in Robinson Crusoe (1719) dell'inglese Daniel Defoe, mentre il motivo dell'ingiustizia e della malvagità del nobile che si accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto fine: l'intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel romanzo manzoniano esista una componente che manca in tutti gli altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento, all'interno del filone "gotico", compaiono romanzi "neri", in cui gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano potenze ultraterrene: è questo il contenuto del Castello di Otranto (1764) dell'inglese Horace Walpole, in cui emerge la figura della fanciulla che, a causa della persecuzione del nobile prevaricatore, non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese Dénis Diderot, narra le peripezie di una giovane che entra in convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla celebre vicenda manzoniana della monaca di Monza, anche se la storia di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del Ripamonti. Il monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo, suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore. Non dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e colpi di scena, e compaiono personaggi che potrebbero ben essere definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce al Foscolo il tema dell'amore infelice nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che racconta la storia di un amore impossibile per la bella Carlotta. Tuttavia nell'altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister (1795) offre un valido spunto anche per Manzoni. L'analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è estranea all'ideazione del personaggio di Renzo che, nel corso del romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare una personalità sicura.

Il 5 maggio

Dedicata a Napoleone. Scritta dal 17 al 19 luglio 1821, cioè subito dopo ch'era giunta a Milano la notizia della morte di Napoleone, avvenuta appunto il 5 maggio.
  1. Il Manzoni non ha mai amato la dittatura di Napoleone, però considerava giuste le idee della Rivoluzione francese, che Napoleone voleva imporre con la forza a tutta Europa.
  2. Il Manzoni qui non giudica Napoleone col metro morale, non si chiede cioè se il suo operato fu "vera gloria", in quanto lascia la sentenza ai posteri. Dice soltanto che anche in Napoleone, Dio ha compiuto i suoi disegni in modo misterioso, senza che neppure Napoleone se ne rendesse conto.
  3. L'uomo-Napoleone appare al Manzoni migliore del dittatore, anche perché si diceva fosse morto cristianamente. Di conseguenza il vero soggetto dell'ode civile è Dio che redime gli uomini, e Napoleone non è che l'oggetto della provvidenza di Dio.

L'ode è stata scritta da Manzoni in soli tre giorni (17-19 luglio 1821) subito dopo la notizia della morte di Napoleone, giunta a Milano il 16 luglio, che doveva provocare nel Poeta una notevole impressione che creò quello sgomento che sempre coglie gli uomini quando muoiono i Grandi che sembrano indistruttibili, una certa commozione che nel Manzoni si traduce nella meditazione sulla vita e sulla morte, sulla fragile transitorietà delle glorie umane e terrene, sulla dolorosità della solitudine, acuita dal ricordo delle grandezze passate e dall'ansietà di un desiderio, talvolta potente, di un aiuto che non arriva (Napoleone che scruta l'orizzonte lontano sul mare), e infine la pacificazione nella Benefica Fede, con una preghiera "a speredere ogni ria parola" superando la condizione umana contingente nell'attesa di raggiungere il premio / che i desideri avanza. Possiamo dividere l'ode manzoniana, composta da 18 sestine per complessivi versi 108, in due distinte parti simmetriche, comprendenti ciascuna 9 sestine: o la prima fino al verso 54, dominata dalla presenza dell'uomo di fronte a se stesso, alla sua storia terrena, alla sua gloria umana, al premio / ch'e follia sperar; domina Napoleone e la sua storia, per il quale Manzoni non si era prodigato in elogi negli anni in cui dominò l'Europa, e non aveva neanche pensato un codardo oltraggio quando il destino dell'uomo era ormai segnato solo dalla sconfitta; di fronte alla morte di Napoleone il Poeta e la terra tutta restano muti nella meraviglia un po' dolorosa di una morte "incredibile". o la seconda dal v. 55 alla fine, dominata dall'incontro tra l'uomo e Dio, la benefica / Fede ai trionfi avvezza, che sola può dare quel premio / che i desideri avanza, / dov'è silenzio e tenebre / la gloria che passò. I verbi al passato remoto in questa seconda parte sono soltanto sei, le tre coppie sparve/chiuse, imprese/stette, ripensò/disperò ed esprimono una escalation verso una condizione di disperazione e di solitudine assoluta che può essere risolta solo attraverso l'intervento di una Forza esterna all'uomo. Per questo, finita l'escalation verso la disperazione, si impone una presenza diversa.
Entrambe cominciano con la realtà presente della morte di Napoleone (Ei fu al v. 1, E sparve al v. 55), di un Napoleone che è solo uno dei due centri costitutivi dell'ode (l'altro è Dio). Ciò che colpisce l'immaginazione e la spiritualità del Manzoni non è la figura di Napoleone, dominatore degli eventi a cavallo fra il Settecento e l'Ottocento, o la storia dei fatti o delle idee di quegli anni, quanto il silenzio e la solitudine vissuti nell'isola di Sant'Elena, e la possibilità di un profondo pentimento maturato nella meditazione sulla sua vita passato e di un affidamento alla pietà di Dio all'avvicinarsi della fine dei propri giorni.
Il poeta rimane muto ripensando agli ultimi attimi della vita di un uomo che il Fato aveva voluto arbitro della storia e di tanti destini umani, di un uomo che si era posto lui stesso come Fato/arbitro dei destini dei popoli e che racchiuse in sé le aspettative di un'epoca; e allora non può che ripensare a quando potrà esistere nuovamente un uomo altrettanto decisivi per i destini umani, che, calpestando la sanguinosa polvere del mondo e della vita, lascerà nella storia un'orma altrettanto grande.
E quegli ultimi attimi sono fusi nell'ansietà di un naufrago, oppresso dalla solitudine e dal peso delle memorie e delle immagini che si affollano nella memoria; e da quel naufragio lo salverà solo la benefica Fede nel Dio che atterra e suscita / che affanna e che consola.

"Marzo 1821": elogio della libertà umana

L'ode fu scritta da Manzoni in occasione dei moti carbonari piemontesi del 1821, quando l'atteggiamento riformistico e liberale del giovane Carlo Alberto, erede al trono piemontese e Reggente in attesa dell'arrivo del Re Carlo Felice di Savoia, che sembrava stesse per varcare il Ticino ed entrare con le armi in Lombardia per aiutare i patrioti a liberare il Lombardo-Veneto dall'oppressivo dominio austriaco, aveva acceso le speranze dei liberali e di coloro che aspiravano all'unificazione dei vari stati italiani sotto un'unica bandiera. Ma le speranze vennero ben presto vanificate sia dall'intervento di Carlo Felice che della polizia austriaca, che procedette a una dura repressione nella quale furono coinvolti, tra gli altri, Silvio Pellico e Federico Confalonieri. L'entusiasmo di quei giorni venne quindi subito stroncato dagli eventi, ma l'ode rispecchiò profondamente uno spirito che non verrà mai soffocato e che ha rappresentato uno degli elementi politici e culturali fondamentali dell'Ottocento, elemento che, dopo circa trentanni di discussioni e approfondimenti, che toccarono non solo le sfere della politica e del diritto, ma anche quella della religione (pensiamo ad esempio al Neoguefismo), a partire dal 1848 in poi, comincerà a trovare una sua qualche realizzazione, non appena i sentimenti liberali si diffonderanno nelle classi sociali medio-basse e diventeranno popolari, non appartenenti più a una ristretta élite. Nel timore di una perquisizione della polizia, il Manzoni nascose o addirittura distrusse il manoscritto dell'ode, ma qualche copia venne conservata da amici, e fu pubblicata solo nel 1848, a cura del Governo provvisorio di Milano, a seguito del successo delle Cinque Giornate che facevano ben sperare in una felice conclusione della liberazione dallo straniero, devolvendo i proventi ai patrioti. Alla base dell'ode si trovano, quindi motivi storici e politici e di esaltazione della libertà dallo straniero insieme a una presenza di Dio, viva e puntuale nelle vicende umane, una presenza che aiuta l'uomo a combattere non solo per il personale riscatto dal peccato, ma anche in senso più universale a combattere per il riscatto della patria dallo straniero, portando gli uomini verso la creazione di un mondo in cui ci sia veramente un maggiore rispetto dell'uomo per gli altri uomini, superando la barriera dell'egoismo personale e dell'interesse politico di una classe sociale che pensa solo e innanzitutto a mantenere il proprio potere. L'ode è un appello alla libertà di tutti i popoli, che va al di là della polemica contro i princìpi (soprattutto quello di legittimità) sanciti dal Congresso di Vienna, princìpi che non tenevano conto delle nuove aspirazioni dei popoli e della nuova situazione europea, venutasi a creare sia con la Rivoluzione francese (sul piano ideologico e politico) che con la Rivoluzione industriale (sul piano economico); l'ode è un appello, infine, contro ogni forma di violenza, ad abbandonare la via del male per seguire quella del diritto dei popoli, rivolto proprio a quei popoli e a quei governi che solo qualche anno prima l'avevano sbandierato per liberarsi dall'oppressione napoleonica. Per questo diventa fondamentale un concetto in questo appello: Dio protegge gli uomini oppressi, e come aveva già protetto a suo tempo i Tedeschi (accomunati agli Austriaci) così avrebbe protetto gli Italiani; ed è proprio il concetto della protezione degli oppressi che troverà la sua grandiosa e definitiva sistemazione ideologica ed artistica ne I Promessi Sposi. Il Poeta dedicò l'ode a Teodoro Koerner, patriota e poeta romantico tedesco, autore di drammi e canti patriottici contro l'oppressione napoleonica, morto combattendo nel 1813 combattendo nella battaglia di Lipsia, secondo il Manzoni. "In questa poesia il Manzoni esprime il proprio ideale nazionale unitario, fondato sull'unità di lingua, di religione, di tradizioni, di stirpe e di aspirazioni, superando ogni forma politicamente gretta o vuotamente rettorica dell'ideale patriottico e incentrandolo su un'effettiva comunione di vita, materiale e spirituale, del popolo, sancita da una tradizione nazionale (le memorie del v. 32). Altrettanto importante è l'ammonimento rivolto agli stranieri che si sono serviti degli ideali nazionali per far ribellare i popoli a Napoleone, ma subito dopo hanno sostituito la loro oppressione a quella dell'imperatore francese. Qui c'è un'altissima e nobile protesta contro la bassa politica della violenza e dell'intrigo, totalmente opposta al messaggio cristiano. È la voce di un cattolico liberale, che esorta gli italiani a insorgere contro l'oppressione in nome di un Dio che è amore ma anche giustizia. Il diritto alla libertà diviene così un dovere, un momento della lotta per l'affermazione del del bene contro il male; Il Manzoni, che nelle Tragedie esecra la guerra, non esita qui a invocare il Dio degli eserciti, a incitare gli Italiani a combattere in nome della giustizia

Adelchi
(coro dell'Atto terzo Dagli atri muscosi...)

  1. Il coro è stato scritto subito dopo il fallimento dei moti del '21
  2. Il Manzoni rifiuta l'idea che un popolo debba sperare di liberarsi da uno straniero in patria (in questo caso i longobardi) confidando nell'aiuto di un altro straniero (i franchi)
  3. Il Manzoni accetta l'idea che i destini di una nazione debbono essere decisi soprattutto dal suo popolo, non da popoli stranieri e neppure da singoli eroi (il "grande protagonista" della storia deve restare il popolo)
  4. Il riferimento alla situazione contemporanea al poeta è evidente: lo straniero in patria sono gli austriaci e i borboni, lo straniero cui si chiede aiuto sono i francesi
  5. Il coro è la riflessione che il poeta fa sulle vicende della storia rappresentate in forma teatrale (in questo caso tragica)

Caratteri generali delle Odi

Nate in un periodo di importanti avvenimenti politici e sociali, le Odi Civili rappresentano la sintesi del pensiero manzoniano, cioè gli ideali di democrazia, libertà e giustizia, ereditati dalla corrente illuminista e mantenuti caparbiamente per tutta la vita. Dal movimento romantico il Manzoni acquisì il grande patriottismo che caratterizza entrambe le sue opere, anche se fu sempre legato ad una religiosità molto forte che contribuì a rafforzare le sue concezioni di vita, discostandosi completamente dalle credenze ottocentesche negative degli altri letterati dell'epoca. La sua fede, infatti, aderente ai contenuti positivi che il Vangelo presenta, non transige nel rispettarle.
Il suo "modus vivendi",dunque, non poteva che gettare le basi di un nuovo concetto, di cui egli ne è il rappresentante assoluto: la "provvida sventura".
Pur sembrando, in apparenza, la non-via d'uscita che condanna l'uomo alla disperazione eterna, è in realtà l'unico mezzo di salvezza per coloro che desiderino essere in grazia di Dio e meritare il suo perdono. Nelle Odi ne ricorrono esempi eclatanti, in particolar modo il "Cinque Maggio": mentre in "Marzo 1821" viene messo maggiormente in rilievo l'amor di patria, esplicitato dalla dedica introduttiva al Koerner, il patriota tedesco morto a Lipsia combattendo contro Napoleone, il "Cinque Maggio", invece, può considerarsi l'opera più completa e geniale del Manzoni.
In primo luogo dal punto di vista dei contenuti: vari e numerosi. Il necrologio introduttivo, i flashback che contribuiscono a rievocare la grandezza delle imprese, fino ad un'indagine psicologica e ad una possibile interpretazione del pensiero del Bonaparte, quindi l'applicazione del vero storico e poetico, comune a tutti gli scrittori romantici.
In secondo luogo, la fama procuratagli: il clamore suscitato dall'avvenimento, rese il componimento noto e diffusissimo, anche grazie al Goethe, che la tradusse per condividerne la bellezza dei versi con i letterati tedeschi. In terzo luogo, la conferma della sua genialità: le fonti storiche affermano che l'autore, turbato dalla notizia, la compose in meno di tre giorni ; la vastità e la complessità, l'impiego di termini e strutture poetiche alquanto ricercati, inducono a riflettere sulle effettive capacità poetiche del Manzoni, che , a quanto pare, sono davvero incommensurabili. Per tutti i motivi enunciati, "Marzo 1821" non può certo considerarsi alla stregua del "Cinque Maggio", che è certamente la più famosa, ma che in fin dei conti non è da meno per quanto riguarda la scelta lessicale, metrica e semantica. E' notevole come anche in questo contesto la figura di Napoleone abbia un ruolo di spessore, che, da un certo punto di vista, può essere riconosciuto come il vero protagonista delle Odi, sotto due aspetti nettamente contrapposti: l'oppresso esule, l'oppressore imperatore. Il rapporto "oppresso-oppressore" è un altro concetto che ricorre spesso nelle opere manzoniane: dalle Odi, alle tragedie, al romanzo più popolare "I Promessi sposi". L'oppresso è colui che è costretto, spesso con la violenza, a subire la volontà altrui, sia esso un semplice signorotto (Don Rodrigo) o l'imperatore dei francesi in persona (Napoleone): è sempre destinato a riscattarsi e a vincere l'oppressore, che finisce per pagare con la vita ed essere condannato alla dannazione, a meno che non intervenga la "Provvida sventura" per salvarlo. L'oppresso confida in Dio e nella fede, ed è questa la sua forza. "Marzo 1821", per questo aspetto, assume un valore educativo: è uno stimolo per capire l'importanza della libertà e trovare il coraggio di lottare per affermarla ad ogni costo. Il popolo deve essere parte attiva, perché esso costituisce la nazione, non deve sperare passivamente nell'intervento altrui, proprio perché affidarsi ad esterni, è segno di poca intraprendenza, quindi di incapacità nell'autogestirsi, precludendo così un'eventuale futura indipendenza nazionale. Per questo è vitale, innanzitutto, acquisire una nuova mentalità, sentendosi tutti cittadini di un solo paese, e solo dopo cementare quest'unione senza distinzioni, da nord a sud. Forse in fondo l'intento del Manzoni consisteva proprio nell'aiutare sia i suoi concittadini, sia l'intera nazione, anche se lo spunto che lo spinse alla composizione fu la delusione personale procuratagli dal Bonaparte: venuto in Italia come alleato, se ne impadronì con prepotenza per annetterla al suo impero; non è allora casuale la scelta del Koerner come simbolo dell'indipendenza. Nonostante tutto, l'ode è più che mai piena di ottimismo, qui espresso come concetto di unità, mentalità piuttosto all'avanguardia per un'epoca in cui niente lasciava prevedere il futuro di un unico suolo italiano, di una sola etnia con usanze, costumi e religione identiche, data la scompattezza all'interno dei singoli stati e le condizioni sociali impossibili. Senza ombra di dubbio, comunque, la poesia che il Manzoni prende in considreazione, è quella "utile" moralmente e semanticamente, con le sue basi di verità e con le forme che hanno il compito di coinvolgere il lettore. In tutti i suoi lavori, il poeta non si è mai allontanato da questo stile, perché, in fin dei conti, il significato nascosto in ognuna delle sue opere, è la commiserazione della fragilità e della miseria umana, contrapposta alla celebrazione della Provvidenza divina.

La fortuna letteraria del Manzoni

La fortuna del Manzoni nelle pagine di critica letteraria comincia già all'epoca della sua giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo Foscolo apprezzano il poeta in erba. I Promessi Sposi riscuotono un grande successo e nell'arco di un anno sono stampate tredici edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l'opera del Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis che dedica all'autore un intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue Carducci, che lo taccia di conformismo borghese, mentre il filosofo e critico Benedetto Croce afferma che il romanzo manzoniano non contiene poesia, ma è opera oratoria, Antonio Gramsci (1891-1937) accusa Manzoni di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli umili, nel saggio Letteratura e vita nazionale (1950), conglobato nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce sono, a tutt'oggi, gli interpreti più acuti dell'opera manzoniana. Attilio Momigliano, Luigi Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari temi e al significato dei personaggi, l'unità poetica e il messaggio fondamentalmente umano dell'opera manzoniana. Michele Barbi progetta nel 1939 un'edizione nazionale delle opere del Manzoni e, negli anni Cinquanta, attua un'edizione critica delle tre redazioni del romanzo, per consentire ai critici utili esami comparativi. Gli studiosi più recenti (G. Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G. Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E. Raimondi, M. Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del suo tempo, valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l'opera letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito, attraverso gli epistolari, il complesso e variegato "ambiente" manzoniano, costituito dai familiari, dagli amici e dai collaboratori.

Introduzione ai Promessi Sposi

Alessandro Manzoni inizia a scrivere I Promessi Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trova con la famiglia nella bella villa di Brusuglio, immersa nella campagna, a pochi chilometri da Milano. Sono tempi difficili: in città la polizia austriaca sta arrestando, uno a uno, i patrioti affiliati alla società segreta della Carboneria. L'anno prima è stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso i processi nei quali sono anche implicati i collaboratori del Conciliatore, tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-1854).
Molti di loro sono amici e conoscenti di Manzoni che spera, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire estenuanti interrogatori.
Ha con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e il saggio di Melchiorre Gioia (1767-1829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove legge il passo di una grida (legge emanata dal Governatore di Milano, chiamata così perché veniva gridata nelle strade da pubblici ufficiali, al fine di informare i cittadini, spesso analfabeti) del Seicento, che commina pene severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.
Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto l'introduzione e i primi due capitoli del romanzo che, in realtà, sta enucleando nella mente da alcuni anni e che rappresenta una vera e propria sfida, per la sua novità formale e di contenuto. Ricostruire il processo di ideazione, stesura e revisione di questo capolavoro significa aprire anche uno spaccato sulla vita culturale dell'Ottocento e calarsi in quell'affascinante fase della cultura italiana che segue e sorregge le prime fasi del processo di unificazione nazionale.

L'ispirazione dei Promessi Sposi

Secondo l'opinione del direttore dei musei manzoniani di Lecco, prof. Gianluigi Daccò, quando il Manzoni disse nel suo romanzo d'essersi ispirato a vicende storiche trovate nel manoscritto di un anonimo, diceva la verità, solo che il protagonista di quelle vicende era un suo trisavolo, di nome Giacomo Maria, vissuto nella zona di Lecco nella prima metà del Seicento. I documenti si trovano nell'archivio di famiglia dello scrittore.
Ecco la storia, che praticamente inizia verso il 1610. Lecco e la Valsassina erano le zone di massima produzione del ferro di tutto il Ducato Lombardo. Due importanti famiglie, i Manzoni di Lecco e Barzio (capeggiati appunto da Giacomo Maria) e gli Arrigoni di Introbio (capeggiati da Emilio), controllavano l'intero ciclo produttivo del ferro: dalle miniere e fonderie della Valsassina alle officine per produrre archibugi e palle da cannone. Avevano molti dipendenti, fortissimi mezzi economici e solidi agganci con le strutture politiche, amministrative e giudiziarie. Ognuna si avvaleva di una vera legione di "bravi", destinati a risolvere le trattative degli affari con le armi della minaccia, del sequestro di persona e persino del delitto. Le due famiglie si contendevano il controllo esclusivo dell'altoforno di Premana, una struttura in cui lavoravano 150 persone.
Nell'Archivio di Stato sono presenti gli atti di due lunghe e complesse vicende giudiziarie. Una riguarda il procedimento per omicidio contro Giacomo Maria, accusato di aver fatto assassinare un Arrigoni, per una questione di donne. Nell'altra l'imputato è sempre Giacomo Maria, ma l'accusa questa volta degli Arrigoni è quella di essere un untore, cioè di aver mandato in giro dei monatti a ungere persone o cose con materiale infetto, per distruggere la famiglia degli Arrigoni (la peste a Milano e a Lecco era scoppiata nel 1630). · Fu il Senato di Milano che, preoccupato del diffondersi della peste, incaricò il giureconsulto Marco Antonio Bossi di condurre una dettagliata indagine. Tre monatti furono arrestati e, sottoposti a tortura, confessarono chi era il mandante. Al termine del lungo processo essi furono condannati e giustiziati, ma Giacomo Maria, grazie alle sue protezioni, riuscì a cavarsela. Il tribunale aveva deciso un supplemento di indagini dalle quali poi risultò ch'egli era stato vittima della rivalità degli Arrigoni. I quali però non si arresero e nel 1640 riuscirono finalmente a spuntarla sul Manzoni.
Ora le analogie col romanzo sono molto evidenti:
  • quasi tutti i fatti narrati sono gli stessi;
  • i luoghi sono gli stessi;
  • simili i protagonisti delle vicende e i personaggi comprimari;
  • identico il periodo storico;
  • le analogie spiccano soprattutto con la prima stesura del romanzo e con la Storia della colonna infame;
  • l'avvocato difensore di Giacomo Maria, descrivendo Emilio Arrigoni, usa delle frasi che sono le stesse che Manzoni adopera per descrivere il Conte del Sagrato in Fermo e Lucia;
  • il comportamento di Giacomo Maria è identico a quello di Don Rodrigo;
  • i racconti della peste si assomigliano;
  • la descrizione di come viene decisa la sentenza di condanna a morte per Giacomo Mora nella Colonna infame è identica a quella che dà il Bossi nel suo memoriale per la sentenza dei tre monatti.