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lunedì 2 agosto 2010

PETRONIO




L’autore del Satyricon è il personaggio rappresentato da Tacito in Annales, Petronius Niger , console verso il 62 , suicida per volontà di Nerone nel 66 d.C               Descrivendo le circostanze della morte di Petronio, Tacito delinea un personaggio paradossale, inimitabile. Petronio era stato un valido ed efficiente uomo di potere; proconsole e poi console; ma la qualità che lo rendeva prezioso a Nerone era la raffinatezza, il gusto estetico. Tra le suggestioni che balzano alla mente – sono certe figura del Settecento europeo, o del Decadentismo: il cortigiano, il dandy, l’asceta, dell’estetismo. Petronio, spinto al suicidio nel 66 da intrighi di palazzo stupì ancora una volta, realizzando un suicidio paradossale come lo era stata la sua vita. Il suo suicidio sembra essere stato concepito come una parodia del teatrale suicidio tipico di certi oppositori del regime. Incidendosi le vene, e poi rallentando ad arte il momento della fine, Petronio passò le ultime ore a banchetto occupandosi di poesia.
                Quanto alle deduzioni da trarre per l’interpretazione del Satyricon, occorre muoversi con maggiore prudenza.


Il problema del genere e dei modelli
Nell’opera di Petronio, gli studiosi moderni hanno rintracciato elementi del romanzo antico, della fabula milesia, del mimo, della satira menippea, della satura latina.
Rapporti con il romanzo greco: nel satyricon i protagonisti vivono situazioni vivono situazioni simili a quelle del romanzo greco (tempeste, nubifragi, riconoscimenti, travestimenti, fughe, persecuzioni di nemici) su un registro patetico e melodrammatico (lamenti declamatori, tentativi di suicidio, sfoghi epistolari). I protagonisti sono una coppia di innamorati, ma omosessuali; non virtuosi e fedeli, ma viziosi e corrotti. Ascilto ed Eumolpo sono l’antitesi dell’amico leale. Sembra una parodia del romanzo greco, una sorta di antiromanzo: l’idealizzazione sentimentale dell’amore è sostituita dall’irrompere di desideri materiali.
Un’ODISSEA comica: parodia dell’Odissea: Odisseo, perseguitato da Poseidone= Encolpio perseguitato da Priapo (presenza anche di Circe). Ci sono anche altri accostamenti: Gitone che si nasconde sotto il letto come Ulisse sotto il ventre delle pecore…
La Fabula milesia: popolarissimo genere narrativo. Novelle di argomento pe lo più erotico e piccante, narrate con magior realismo delle vicende sentimentali idealizzate del romanzo greco. Petronio fa racconatre a Eumolpo due novelle milesie, quella del fanciullo di Pergamo  e quella della matrona di Efeso .
Rapporti con la satira: incisiva caratterizzazione delle figure dei convitati alla Cena Trimalchionis, il realismo mimetico del’osservazione, il tono arguto e spregiudicato. Ma non ha fini morali.
Rapporti con la Satira menippea: forma prosimetrica (prosa mista a versi), la varietà dei registri stilistici (dal più basso al più elevato), parodia, fusione di elementi realistici e fantastici.

struttura del romanzo e strategie narrative
Satyricon à Il motivo del viaggio, su cui si era modellata gran parte della narrativa antica, nel romanzo di Petronio assume la forma di un affannoso vagare labirintico. Sullo schema del labirinto sono modellati tutti gli episodi del romanzo. Il viaggio di Encolpio è un viaggio a vuoto, nel corso del quale si ritorna sempre al punto di partenza. In chiave simbolica, il motivo del labirinto definisce lo stato di precarietà, di incertezza dei personaggi.

Reralismo mimetico ed effetti di pluristilismo
Ogni personaggio viene caratterizzato dal linguaggio che usa: per questo parliamo di «realismo mimetico». Ci sono due categorie di personaggi: quelli colti, che utilizzano un latino semplice ma elegante e quelli incolti, che si esprimono in un latino fortemente espressivo.

 

 

 

 

 











IL SATYRICON
Pochi capolavori della letteratura mondiale sono segnati da ombre così molteplici e sovrapposte: del Satyricon sono incerti l’autore, la data di composizione, il titolo e il significato del titolo, l’estensione originaria, la trama, per non parlare di questioni meno concrete ma importanti, quali il genere letterario in cui si inserisce e le motivazioni per cui quest’opera per molti versi eccentrica venne concepita e pubblicata.
               
LA TRAMA DEL ROMANZO

                Percorrendo brevemente la trama del Satyricon, terremo presente che il nodo in cui si è formato il testo che abbiamo è assai problematico. La parte più integra è il famoso episodio della Cena di Trimalcione.La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio, l’unico personaggio che compare in tutti gli episodi del romanzo. Encolpio attraversa una successione di peripezie, e il ritmo del racconto è variabile; talora scarno e riassuntivo, a volte – come nella cena in casa di Trimalcione – lentissimo e ricco di dettagli realistici.
                Da principio Encolpio, un giovane di buona cultura, ha a che fare con un maestro di retorica, Agamennone, e discute con lui il problema della decadenza dell’oratoria.
                Encolpio viaggia in compagnia di un altro avventuriero, Ascilto, e di Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in scena una matrona di nome Quartilia, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priapo. I riti si rivelano più che altro un pretesto per asservire i tre giovani ai capricci lussuriosi di Quartilia.
                Appena sfuggiti a Quartilia, i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalcione, un ricchissimo liberto dalla sconvolgente rozzezza. Si descrive con abbondanza di dettagli lo svolgersi della cena, una teatrale esibizione di ricchezza e di cattivo gusto.La rivalità omossessuale tra Encolpio e Ascilto precipita; i due, gelosi dell’amore di Gitone, hanno un violento litigio, e Ascilto si porta via il ragazzo. Encolpio affranto, entra casualmente in una pinacoteca, e qui conosce un nuovo personaggio che avrà ruolo centrale in tutte le successive e avventure. Si tratta di Eumolpo, un poeta vagabondo, un uomo anziano ma avventuriero. Eumolpo comincia con l’esibire i suoi doni poetici, recitando seduta stante una sua composizione sulla Presa di Troia. Dopo una rapida serie di peripezie, Encolpio riesce a recuperare il suo Gitone, e a liberarsi di Ascilto, ma non a liberarsi di Eumolpo, che si rivela sempre più come un nuovo aspirante alle grazie di Gitone. Si costituisce così un nuovo terzetto amoroso. Sinora, l’azione si è svolta in una Graeca urbs, una città costiera della Campania. Encolpio, Eumolpo, e Gitone, lasciano precipitosamente la città imbarcandosi, in incognito, su una nave mercantile. Durante la rotta, il padrone della nave si rivela essere il peggior nemico di Encolpio: è un mercante di nome Lica, che ha motivo di vendicarsi per qualche precedente avventura. Eumolpo tenta una mediazione, e fra l’altro cerca di svagare i compagni di viaggio raccontando la piccante novella della Matrona di Efeso. La situazione sembra, comunque, male avviata, quando interviene una provvidenziale tempesta. Il minaccioso Lica viene spazzato in mare, la nave cola a picco, e i tre si ritrovano soli sulla riva.Inizia così una nuova avventura: Eumolpo scopre di essere nei paraggi della città di Crotone. Questa città dal passato glorioso è in mano ai ricchi senza eredi. Durante il cammino verso Crotone, Eumolpo tiene ai suoi compagni una lezione sulla poesia epica, e declama un lungo poemetto sulla guerra tra Cesare e Pompeo, il cosiddetto Bellum civile.
                L’ultima fase del racconto è per noi più difficile da seguire, per lo stato lacunoso del testo di Petronio. Encolpio ha un’avventura con una donna di nome Circe, ma improvvisamente è abbandonato dalle sue facoltà sessuali e per questo perseguitato dal dio Priapo.
                Ancora una volta, quando il nostro testo si interrompe, troviamo il protagonista in una posizione di scacco, creata proprio dal tentativo di liberarsi da una minaccia incombente. Non sappiamo come si concludesse l’avventura di Crotone, né quanto durasse ancora il romanzo; immaginare il finale dell’opera è poi del tutto impossibile. Nessuno degli episodi che abbiamo lascia prevedere il successivo, e non sappiamo del resto, fino a che punto il Satyricon rappresenti un romanzo secondo il nostro concetto moderno di questo genere letterario

MARZIALE

Quadro storico
La nuova dinastia imperiale, quella dei Flavi, oppone un programma di restaurazione morale e civile, forte del favore ottenuto con l'aver saputo riportare la pace e la concordia dopo la grave crisi giulio-claudia. Sul piano letterario spiccano soprattutto due fenomeni , la ripresa della poesia epica(Virgilio sarà il modello) e , in prosa, l’importanza di Cicerone e della retorica. Ci sono 2 aspetti del comportamento di Marziale che denotano una certa autonomia personale:l'amicizia che lo lega agli uomini di cultura del tempo, soprattutto provenienti dalla sua terra, e la conoscenza del valore dei suoi epigrammi, con la difesa anche del suo linguaggio spesso scurrile. Tuttavia, ricorre spesso nei suoi versi il tema della povertà che obbliga il poeta ad arrangiarsi e lo induce a guardare alla sua condizione di cliente come a una necessità imposta dalla situazione economica e sociale sua e dei suoi tempi.
Biografia di Marco Valerio Marziale
Nasce tra il 38 e il 41 d.c a Bilbili, una città della Spagna da una famiglia moderatamente benestante. Riceve una buona istruzione retorica e decidedi andare a Roma, è così introdotto nella buona società. Nell'80 d.C. L'imperatore Tito inaugura l'anfiteatro Flavio. Marziale celebra l'evento con la pubblicazione di un libro di poesie, dedicato a Tito, che descrivono gli spettacoli dati durante l'inaugurazione. Il libro, giunto fino a noi probabilmente in forma incompleta, è noto col nome di Liber Spectaculorum o Liber de Spectaculis. Il libro ottiene un discreto successo e Marziale viene nominato “tribuno militare”, una caria onorifica che gli permette di far parte della classe dei cavalieri pur non avendo reddito necessario. Marziale capisce che l'epigramma è la strada da seguire se vuole diventare qualcuno a Roma o 5 anni dopo, in occasione della festa dei Saturnali, escono 2 nuove raccolte, gli Xnenia(gli xenia erano i doni che i cittadini romani si scambiavano durante i Saturnali) e gli Apophoreta(significa cose da portar via;era uso, dopo i banchetti, distribuire ai commensali oggetti più o meno frivoli e mondani, che spesso venivano estratti a sorte, come in una lotteria, per le persone che erano state invitate a un banchetto. I metri degli epigrammi sono diversi, ma predomina il distico elegiaco. Sono queste le poesie che hanno dato a Marziale un posto di rilievo all'interno della letteratura latine.
Il genere dell'epigramma
A Roma l'epigramma non aveva una grande tradizione. L'origine risale all'età greca arcaica, dove la funzione dell'epigramma era essenzialmente commemorativa:era inciso ad esempio su pietre tombali, a ricordare una persona, un monumento, un luogo o un evento famoso. I temi sono di tipo leggero, amorose e descrittive, di presa in giro che, garbata e fine , poteva con estrema facilità diventare violenta se non apertamente oscena.
L'epigramma a Roma
Nella letteratura latina le prime composizioni epigrammatiche si trovano nelle iscrizioni funerarie.
Di fatto è solo con l'opera di Marziale che l'epigramma trova riconoscimento artistico. L'epigramma letterario latino nasce alla fine del II secolo a.C., acquistando importanza nel secolo seguente con i poetae novi, tra i quali spicca soprattutto il nome di Catullo, autore di 116 componimenti lirici, molti dei quali sono veri e propri epigrammi. Catullo ne valorizza la forma breve come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, cioè temi della vita individuale, nonché a farsi strumento di vivace aggressione politica. Marziale fare dell'epigramma il suo genere esclusivo, l'unica forma della sua poesia, apprezzandone la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale.
La sua idea di poesia:
1.       il rifiuto della poesia contemporanea, soprattutto epica e tragica: vuota, priva di contatti con la realtà.
2.       vuole rappresentare l’uomo e la vita. Poesia che parli dell’uomo e di quello che è, dei suoi costumi. La vita deve riconoscere nella poesia i suoi costumi. La poesia può diventare uno specchio e deve far leggere all’uomo se stesso. Che cosa la poesia può far leggere all’uomo di sé? Non può portarlo nel suo animo; si limita a far conoscere gli usi di vita, le banali abitudini quotidiane. La poesia non può aiutare l’uomo a comprendere se stesso, ma fa comprendere con leggerezza come si vive.
Marziale è differente da Persio, il quale si proponeva l’idea di correggere, pensava che la poesia potesse avere una visione didascalica, mentre per Marziale la poesia non può correggere niente e inoltre il poeta non è un moralista.
È poi differente da Petronio, la cui opera è un ritratto profondo della vita e del caos insito nell’esistenza. Infine Marziale è differente da Giovenale, il quale era arrabbiato con il mondo, smaschera con rabbia.
Secondo Marziale non c’era motivo di fare tutto ciò: la poesia è uno strumento limitato che può offrire alla società un umile contributo, non deve porsi grandi obiettivi.
È però importantissimo fare in modo che la poesia diverta il lettore, perché altrimenti non segue e non si trova negli usi scritti.
Gli elementi indispensabili degli epigrammi sono:
  1. la brevità: esprimono una sola immagine perché la poesia è abituata alla superficialità;
  2. non ci deve essere nessun ragionamento: rifiuta a priori la riflessione. Descrive tutte immagini ad effetto in cui passaggi logici sono sottintesi;
  3. immagini che insistono soprattutto sulla sfera sessuale.







Il realismo
Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi. Unendo in se la curiosità del turista e l'esperienza del padrone di casa, Marziale si aggira tra le strade di Roma, convincendo il lettore a seguirlo nelle terme, dove i Romani si riunivano a chiacchierare di affari e politica oppure, i più poveri, a strappare un invito a pranzo; a seguirlo nei portici, dove si discuteva di letteratura;nei mercati, dove le mercanzie provenivano da tutto il mondo; nei fori, dove gli avvocati esercitavano il loro mestiere. In queste passeggiate per Roma, Marziale si ferma talvolta per indicare alcuni personaggi famosi, onesti e disonesti. La galleria di questi disdicevoli personaggi è molto ampia: ci sono ex schiavi che nascondono il loro passato sotto i ricchi mantelli di lana, i parassiti sempre alla ricerca di un invito a cena, i falsi filosofi, i cacciatori di eredità, le donne e gli uomini che non accettano l'età e si truccano per sembrare più giovani, i medici che fanno morire gli ammalati. L'atteggiamento del poeta è però quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato, che raramente si impegna nel giudizio morale e nella condanna: una satira sociale che preferisce il sorriso all'indignazione risentita. Marziale, quindi, non è un moralista: non predica la verità, non si ritiene migliore degli altri, non vuole dare consigli. Il poeta vede la vita che lo circonda e la ritrae con un realismo che diventa pungente grazie a una buona dose di cinismo. I suoi epigrammi ritraggono la vita quotidiana in chiave comica. L'epigramma di Marziale sviluppa fortemente l'aspetto comico-satirico: in ciò prosegue un processo avviato gia
dal poeta greco Lucilio. Marziale non usa lo schema della satira, il lungo componimento creato da Lucilio, dove dominano l'analisi e la valutazione morale. La forma delle poesie di Marziale ricalca moduli precisi e ricorrenti: il poeta espone un fatto, descrive un personaggio, racconta una storia; la conclusione è una battuta fulminante, comica o pungente, che spesso sorprende il lettore.
Schema-tipo dell'epigramma
Lo studioso di letteratura Lessing è arrivato alla conclusione che le forme compositive di Marziale si possono ricondurre a uno schema-tipo, costruito su una prima parte, che descrive la situazione, l'oggetto, il personaggio, suscitando nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che, con effetto sorprendente scarica quella tensione di un paradosso. I temi degli epigrammi di Marziale sono veri, e investono l'intera esperienza umana: ci sono quelli radicati nella tradizione, ossia l'epigramma funerario, per la commemorazione di un defunto; in altre Marziale
riprende il tema del carpe diem oraziano, esortando i suoi amici a non limitarsi a vivere, ma a cercare di vivere bene, di godere ogni momento della loro vita, di vivere ogni giorno come se fosse l'ultimo. Nell'epigramma di Marziale si crea un rapporto tra la parte oggettiva(la descrizione di un oggetto o di un personaggio) e la parte soggettiva(l'intervento personale del poeta). Un'altra serie di epigrammi ha invece procurato qualche problema alla fama postuma di Marziale: si tratta delle numerose poesie dedicate agli imperatori, ricche di un'adulazione il più delle volte esagerata. Molti sono gli epigrammi di polemica letteraria, in cui l'autore illustra le sue scelte poetiche o lamenta
la decadenza delle lettere e del mecenatismo.

Il linguaggio realistico
Una scelta di poesia realistica come quella che Marziale pratica comporta naturalmente un linguaggio e uno stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. La palese oscenità di non poche delle sue poesie non ha mai cessato di costituire l'ostacolo maggiore a un giudizio sereno sulla qualità della sua ricchissima produzione poetica.











GIOVENALE

GIOVENALE

LA VITA
Le notizie sulla vita di Giovenale sono estremamente povere ed incerte. Egli nacque, probababilmente intorno al 60 d.C. La posizione sociale e la situazione economica di Giovenale, che affiorano dalle Satire e da tre epigrammi di Marziale, sono quelle di un tipico esponente del “ceto medio” urbano. Di qui la necessità di accettare il ruolo di “cliente”, di porsi in altre parole al servizio di un ricco patronus, sottostando alle umiliazioni e ai disagi più volte descritti nelle Satire. Incerte sono anche le notizie sulla sua formazione, che pare comunque legata alle scuole di retorica e di eloquenza. A quanto pare, incominciò a pubblicare i cinque libri delle sue Satire solo in età matura: i primi due sotto Traiano e gli ultimi tre sotto Adriano.

LE SATIRE

Di Giovenale ci sono pervenute 16 Satire in esametri, divise in cinque libri. Fra i primi tre libri e i due successivi si nota un netto distacco: le prime nove satire nascono, infatti, dalla indignatio e sono caratterizzate da un tono aggressivo nella rappresentazione realistica dei vizi, le ultime sette rivelano invece una chiara matrice diatribica (genere letterario tipico della divulgazione morale e filosofica,).Nella satira proemiale Giovenale afferma di vedere davanti a sé una società che ha raggiunto il limite estremo della corruzione. Per evitare persecuzioni e condanne, il poeta sarà costretto a descrivere nelle sue satire l’epoca degli imperatori ormai defunti, ma la società malata di cui parla è quella attuale. In questa prima satira Giovenale afferma di volersi inserire nel genere letterario fondato da Lucilio e portato a perfezione da Orazio, ma la sua osservazione della realtà è lontanissima da quella indulgente di Orazio, poiché è compiuta sempre attraverso l’indignatio e cogliendo non tutti gli aspetti dell’esistenza umana, ma soltanto quelli negativi. La società descritta da Giovenale si manifesta soprattutto nella ricerca esasperata del lusso, in uno sfrenato consumismo, nel soddisfacimento di ogni piacere senza alcun rispetto per la “giusta misura”, per il modus. Straordinari esempi di perversione ed eccesso si hanno nella descrizione dei banchetti dei ricchi, nella gara di sfarzo nelle abitazioni e nell’abbigliamento, ma soprattutto nel comportamento delle donne. Oltre che dai vizi, Giovenale è urtato da molti aspetti innovativi della società imperiale. Il crescente cosmopolitismo ha riempito l’Italia di Greci ed orientali, nei quali il poeta vede gli importatori del vizio e di culti perversi. Il modello etico sulla base del quale Giovenale condanna la società contemporanea è quello tradizionale della Roma repubblicana, che ad ogni modo non ha alcun carattere socialmente “progressivo”: è anzi il ritorno a un mondo rurale privo di apporti stranieri, in cui ogni ceto deve far bene la sua parte standosene nel posto assegnatogli dalla gerarchia sociale. Questo atteggiamento di rifiuto del proprio tempo non è probabilmente solo il frutto di un’esasperazione individuale, ma riflette il modo di pensare di una parte della popolazione romana ed italica di condizione libera, ma economicamente debole, che non si sente partecipe dei benefici della nuova realtà politica e sociale. La poetica di Giovenale presenta una trasformazione abbastanza netta dalla satira X. L’enfasi della denuncia appare finita, è dato più spazio all’ironia, e il contenuto della satira si esprime in forme più indirette. Forse Giovenale si rese conto dell’inutilità di una denuncia che si limitasse a descrivere le manifestazioni del vizio e cercò quindi di giungere alle radici del male, ai modelli etici che stavano alla base dei comportamenti individuali e collettivi. Nelle ultime sette satire, in effetti, sono passati in rassegna i grandi temi morali (la fides, l’amicizia, l’educazione dei giovani) ed è proposto un modello positivo di saggezza, senza tuttavia uscire mai dai luoghi comuni dell’etica diatribica.
LA LINGUA, LO STILE
Giovenale articola spesso il discorso morale in una successione di scenette, ma descrive la realtà seguendo schemi retorici che accentuano l’enfasi ed esasperano i toni, con un’evidente ricerca di effetto. Giovenale conferisce al proprio discorso non il tono colloquiale del sermo, ma l’enfasi del dramma, che richiama il teatro tragico. Proprio questa caratteristica dello stile di Giovenale ha fatto sì che molti dei suoi versi siano diventati veri e propri proverbi. Gli elementi di stile elevato che nella tradizione satirica erano entrati finora esclusivamente a fini di gioco parodistico, hanno in Giovenale una presenza più larga. Il lessico della tradizione poetica illustre serve, oltre alla vera e propria parodia, a dare solennità e autorevolezza agli esempi, e ad elevare il pathos satirico.

LA FORTUNA

Le Satire di Giovenale non godettero di grande popolarità presso i contemporanei: non vengono ricordate da Marziale negli epigrammi dedicati all’amico Giovenale e neppure da Plinio il Giovane, che nelle sue lettere si dimostra un curioso ed attento osservatore della vita intellettuale romana. Vennero “riscoperte” nel IV secolo e proprio per il suo rigore morale, Giovenale fu tra i poeti più letti nel Medioevo. Grande popolarità godette specialmente nel Seicento e nel Settecento europei.

PERSIO - GIOVENALE

Entrambe sono autori separati da mezzo secolo, infatti Persio visse sotto Nerone, mentre Giovenale sotto i Flavi.
Hanno condotto una vita ai margini(sia a livello biografico che culturale): di fatto non ebbero gli appoggi necessari per entrare nei circoli dell'’mperatore.
Persio, anche se ebbe piu’ successo, mori’ giovane ( 28 anni) e non pote’ cosi’ realizzarsi pienamente.
Giovenale  invece si appoggiò ad alcuni potenti dai quali però non ebbe mai una sicura protezione.
Per loro, Roma era in un’ età di degenerazione e corruzione e l’unico strumento di denuncia nelle loro mani era la satira.Cosa c’era che non andava a Roma?               
ü  Le famiglie imperiali non costituivano piu’ un modello dal quale trarre spunto
ü  La societa’ romana era ormai composta da individui che si erano fatti dal niente: non avevano una base nobiliare o economica ( vedi Trimalcione)
ü  Aumentavano sempre di piu’ quelli che venivano meno ai valori del mos maiorum, cercando il lusso e la lussuria.
Molti personaggi delle loro satire rappresentano questo mondo.

Differenze Persio scrisse 6 satire
Giovenale ne scrisse 16 raggruppate in 5 libri
Persio à Ebbe una formazione morale e filosofica stoica: denunciando i limiti della societa’ romana, invita l’uomo a una vita piu’ appartata, piu’ sana, all’autosufficienza  e alla saggezza. Compose satire molto duro, sembro’ credere pero’ in un’alternativa (utopistica) della solitudine stoica.
Giovenaleà Era convinto dell’irrecuperabilità della societa’ romana. Sembra non prendere in considerazione l’idea di una redenzione. Toni e lingua si fanno così aspri e duri.

PERSIO


Persio: la satira

L’opera comprende sei libri e c.ca 650 esametri. All’inizio della prima satira troviamo un’aspra requisitoria contro la letteratura del tempo, dettata solo dalla convenienza. Egli infatti colloca la propria produzione sotto il segno del verum. Persio rappresenta il primo stereotipo del poeta aggressivo, utilizzando il sermo, ovvero la conversazione urbana e uno stile non elevato. Nonostante questa scelta Persio vuole che la sua satira risulti chiara e tornita, infatti utilizza la iuctura acris che rende i suoi testi ardui e inconfondibili. Il soggetto della satira sono i mores, i comportamenti dei romani ma non in generale, ma in quanto corrotti. Egli vuole attuare una sorta di intervento medico per curarli attraverso un’impostazione moralistica . Per questo si distanzia dalla satira luciliana e oraziana che era + satira d’intrattenimento. Lo stile è personalissimo in cui notiamo inclinazioni apparentemente divergenti come il parlare colloquiale, che evita ogni pretenziosa elevatezza, e la volontà e la capacità di manipolare la lingua, creando relazioni inedite fra le parole in modo da smascherare ipocrisia e corruzione in nome del verum.


PERSIO..
SCHEMA GENERALE:
La produzione poetica di Persio consiste in 6 satire, scritte in esametri, utilizzati anche da Orazio e Lucilio.
  • COLIAMBI (sono n° 14) e I SATIRA= aspra polemica contro le tendenze culturali del tempo.
  • II SATIRA= Persio critica chi pratica una religiosità solo esteriore. Nella II satira il tema principale è caratterizzato dalle preghiere rivolte agli dei;
III SATIRA= critica chi non cerca il vero significato della vita. nella III satira, invece, Persio afferma l’importanza degli studi di filosofia, anche richiamando la virtus in Lucilio.La seconda parte della satira affronta il tema delle malattie dello spirito e il topos della corruzione visto come una sorta di morbo morale.
  • IV SATIRA= si deve conoscere se stessi e non criticare gli altri.
V SATIRA= E’ fondamentale la parte iniziale della V satira, in cui interviene lo stesso Anneo Cornuto. In tali versi da una parte Persio sceglie una voce misurata, dall’altra vuole che sia teres: ben rifinita.Quindi si propone uno stile non elevato, ma al contempo cura l’elaborazione formale (iunctura acris). La realtà, invece, è costituita dai mores, cioè dai comportamenti umani; tali mores non sono presi in considerazione in generale, bensì in quanto pallentes (pallidi a causa della malattia) e quindi corrotti (per questo motivo il poeta satirico è un medico).
  •  VI SATIRA= riflessione sull’uso dei beni che deve essere moderato.

CARATTERISTICA GENERALE= c’è una forte tensione morale; Persio, inoltre, osserva e critica quei comportamenti troppo lontani dal “modus vivendi” ispirato alla libertà interiore.

Un genere contro corrente: la SATIRA.
La I Satira si apre con un verso riconducibile a Lucilio e che anche dante riprenderà in una delle sue opere. La scelta del genere satirico si pone proprio in opposizione alla letteratura empia dell’età di Nerone. Persio vuole cantare il “vero” al suo anonimo interlocutore, secondo il modello diatribico.





FEDRO


FEDRO

La fortuna di Fedro va dalle scuole antiche ai nostri ginnasi, il suo merito da umile liberto è stato quello di riprendere dalla letteratura greca le opere di Esopo. Non bisogna però ridurre l'opera di Fedro ad una semplice copiatura perché non è così, egli apporta delle importanti modifiche, prima di tutto la brevitas e poi dalla prosa di Esopo e gli passa alla poesia, utilizzando comunque un metro umile: senario giambico, proprio della tradizione dei generi più popolari. L'opera è divisa in cinque libri e conta in tutto in 93 favole, ogni libro è caratterizzato da un prologo, il primo libro conta 31 favole, il secondo otto, il terzo 19, il quarto 25 e l'ultimo 10. Si può da una parte giustificare lo scarso numero di favole dell'ultimo libro, ma più difficile risulta giustificarne il secondo di cui probabilmente furono soppresse alcune favole di probabile allusione politica. Tuttavia l'opera di Fedro doveva contenere più favole di quelle che ci sono giunte, ciò è dimostrato dalla scoperta da parte dell'umanista Niccolò Perotti di un codice contenente un'altra trentina di favole: Appendix Perottina. L'importanza di Fedro sta nell'aver introdotto nella letteratura latina un genere letterario. È importante ricordare comunque che la figura di Esopo, un è leggendaria ma lui comunque attribuito il merito di aver raccolto per la prima volta in forma scritta favole che appartenevano esclusivamente alla oralità. La scelta degli animali ha un'importanza essenziale, parlando di una società a di contadini e pastori che stavano sempre a contatto con gli animali non si poteva utilizzare immagine migliore. Il rapporto tra una volpe (protagonista di una favola) e un uomo è indifferente dal confronto tra un leone e un uomo, il primo caratterizzato dalla furbizia o il secondo dalla forza. Gli uomini dell'epoca capivano il senso di tali similitudine riconoscendo negli animali uno specchio. A differenza delle opere mitologiche, nelle quali gli animali si comportano come uomini, dove si trattano canoni di comportamento, nelle favole vengono interpretati come semplici consigli. La forma allegorica permette di esprimere una polemica molto acuta, ponendo l'attenzione sulle classi inferiori in una società dominata dai potenti. Tuttavia si nota un certo pessimismo dato dalla consapevolezza che è difficile un cambiamento. Nella letteratura moderna famosi estimatori furono Trilussa e la Fontaine.

sabato 31 luglio 2010

GABRIELE D'ANNUNZIO

1.       La vita
Nato nel 1863 a Pescara, da agiata famiglia borghese, studiò in una delle scuole più aristocratiche del tempo. A soli 16 anni esordì con “Primo vere” un libretto in versi.
A 18 anni si trasferì a Roma, dove abbandonò gli studi per la vita mondana; divenne famoso per la vita e le opere scandalose, creandosi la maschera dell’esteta, dell’individuo superiore che rifugge dalla mediocrità, rifugiandosi in un mondo di pura arte che ha come regola di vita solo il bello.
Nei primi anni del 90 però D. entrò in crisi e andò alla ricerca di nuove soluzioni, trovandole nel mito del superuomo (Nietzsche). Egli puntava al “ vivere inimitabile”
Una vita da principe rinascimentale che conduceva nella villa di Fiesole, tra oggetti d’arte, amori lunghi e tormentati ( Eleonora Duse), con un dispendio di denaro che egli non riusciva a controllare: Proprio questa fu la contraddizione che non riuscì a superare: egli disprezzava il denaro borghese, ma non poteva farne a meno per la sua vita lussuosa. Proprio per l’immagine mitica che voleva dare di sé, tentò anche l’avventura politica, anche se in un modo ambiguo, schierandosi prima con la destra e poi con la sinistra.
In seguito rivolse la sua attenzione anche al teatro,  poiché poteva raggiungere un pubblico più vasto rispetto ai libri.
Ma nonostante la sua fama fosse alle stelle ed il “ dannunzianesimo” stesse improntando tutto il costume dell’Italia borghese, D., a causa dei creditori, dovette fuggire dall’Italia rifugiandosi in Francia.
L’occasione tanto attesa per l’azione eroica gli fu offerta dalla I guerra mondiale
Al cui scoppio D. tornò in Italia ed iniziò una campagna interventista. Arruolandosi volontario fece imprese clamorose e combattè una  guerra eccezionale non in trincea, ma nei cieli con il nuovissimo mezzo: l’aereo.Nel dopoguerra capeggiò una marcia di volontari su Fiume dove instaurò un dominio personale. Cacciato via, sperò di riproporsi come “duce” di una rivoluzione reazionaria ma fu scalzato da Mussolini. Il Fascismo lo esaltò come padre della Patria ma lo guardò anche con sospetto confinandolo nel “Vittoriale degli Italiani”, una villa di Gardone, che egli trasformò in vero mausoleo. Qui trascorse gli ultimi anni fino alla morte nel 1938.
L’influenza di D. sulle cultura e sulla società fu lunga ed importante, lasciando un’impronta sul costume degli italiani e sulle nascente cultura di massa. 











2.       L’ estetismo e la sua crisi
2.1                L’esordio:
L’esordio di D’Annunzio avvenne sulla scia di Carducci ( “Primo Vere” e “ Canto Nuovo” si rifanno al Carducci di “Odi Barbare”, “Terra Vergine” si rifà al Verga di “Vita dei Campi”)
“Primo Vere “ è un esercizio di apprendistato. Il “Canto Nuovo” porta ai limiti estremi i temi di Carducci: il senso “pagano delle cose”, la metrica barbara. Sono presenti però spunti diversi, momenti di stanchezza, visioni cupe e mortuarie che fanno intuire come il vitalismo sfrenato celi sempre in sé il fascino della morte.
In “Terra Vergine” D. presenta figure e paesaggi della sua terra, l’Abruzzo. Però non vi è nulla della precisa indagine condotta da Verga sui meccanismi della lotta per la vita nelle basse sfere e soprattutto nulla dell’impersonalità verghiana. Qui il mondo è iddillico, non problematico, con passioni primordiali, erotismo, violenza. Così come anche in altre opere, qui è presente il compiacimento per un mondo magico, superstizioso e sanguinario.

2.2  I versi degli anni ’80 e l’estetismo
La stessa matrice irrazionalistica, tipica del Decadentismo, è evidente nella copiosa riproduzione di versi che rivela l’influenza francese. “L’intermezzo di rime”, “L’Isotteo” e “La Chimera” sono frutto dell’estetismo dannunziano in cui il Verso è tutto , l’Arte è il valore supremo. Sul piano letterario ciò dà origine ad un vero e proprio culto religioso dell’arte e della bellezza. La poesia non nasce dall’esperienza ma da altra letteratura ( classica, tradizionale, francese, inglese)
Il personaggio dell’esteta, che si isola dalla realtà meschina della società borghese, in un mondo di pura arte e bellezza, è una risposta ideologica alla crisi del ruolo dell’intellettuale, è un risarcimento immaginario alla condizione di degradazione dell’artista che D. non poteva tollerare.

2.2                Il “piacere” e la crisi dell’estetismo
D. si rende ben presto conto delle debolezze della figura dell’esteta ed avverte la sua fragilità in un mondo lacerato da forze brutali.L’estetismo entra in crisi ed il “Piacere” ne è la testimonianza.
Al centro del romanzo vi è la figura di un esteta, Andrea Sperelli, il “doppio” di D. stesso; è un giovane aristocratico ed il principio “fare la propria vita, come si fa un’opera d’arte” diviene una forza distruttiva.La crisi è molto evidente nel suo rapporto con le donne: è diviso fra due donne Elena, la donna fatale e Maria, quella pura. Ma l’esteta mente a sé stesso : la figura della donna angelo è solo oggetto di un gioco erotico sottile e perverso, e funge da sostituto di Elena, che Andrea desidera ma che lo rifiuta.Infine viene abbandonato da entrambe.
Nel romanzo l’autore è critico nei confronti del suo doppio, ma Andrea continua ad esercitare un sottile fascino sullo scrittore: quindi, pur segnando un momento di crisi, Il Piacere non rappresenta il definitivo distacco tra D’Annunzio e la figura dell’esteta.

2.4 La fase della bontà
La crisi dell’estetismo non approda subito ad una soluzione alternativa.
Al “Piacere” succedono incerte sperimentazioni. E’ una fase della cosiddetta Bontà in cui D. subisce il fascino del romanzo russo. Abbiamo “L’Innocente”, “Giovanni Episcopo”, “Il poema paradisiaco” in cui troviamo quei temi (esigenza di purezza, recupero dell’innocenza, stati di languore) che saranno ripresi dai crepuscolari.
La Bontà però è solo una soluzione provvisoria; uno sbocco alternativo alla crisi dell’estetismo sarà la lettura di Nietzsche.



3.       I Romanzi del Superuomo
 
3.1                L’ideologia superomistica

D. coglie alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche banalizzandoli: il rifiuto del conformismo borghese e dei principi egualitari che schiacciano la personalità, l’esaltazione di uno spirito dionisiaco, cioè di un vitalismo gioioso, libero dalla morale,il rifiuto della pietà dell’altruismo, il mito del superuomo, assumono una coloritura antiborghese, aristocratica e antidemocratica. Vagheggia l’affermazione di una nuova aristocrazia che sappia elevarsi e superiori forma di vita attraverso il culto del bello e l’esercizio della vita eroica. 

Il mito Nietzschiano del superuomo è interpretato de D. come il diritto di pochi esseri eccezionali ad affermare il loro dominio sulla massa. Questo nuovo personaggio ingloba in sé l’esteta; l’artista- superuomo ha funzione di vate, ha una missione politica di guida, diversa da quella del vecchio esteta. D. non accette il declassamento dell’intellettuale e si attribuisce un ruolo di profeta di un ordine nuovo

3.2                I romanzi del Superuomo
Il romanzo “Il trionfo della morte” rappresenta una fase di transizione fra le due figure del superuomo. L’eroe Giorgio Aurispa è un esteta simile ad Andrea Sperelli ( del Piacere) che, travagliato da una malattia interiore, va alla ricerca di un nuovo senso della vita. Un breve rientro nella sua famiglia acuisce la sua crisi, perché reimmergersi nei problemi della vita familiare e soprattutto rivivere il conflitto col padre, contribuisce a minare le sue energie vitali: per cui è indotto ad identificarsi nella figura dello zio, a lui simile nella sensibilità e morto suicida.
La ricerca porta l’eroe a tentare di riscoprire le radici della sua stirpe.La soluzione gli si affaccia nel messaggio dionisiaco di Nietzsche, in un’immersione nella vita in tutta la sua pienezza, ma l’eroe non è ancora in grado di realizzare tale progetto: prevalgono in lui, sull’aspirazione alla vita piena e gioiosa, le forze negative della morte; egli al termine del romanzo si uccide, trascinando con sé la “Nemica”.
Il romanzo successivo “Le Vergini delle rocce” segna la svolta ideologica radicale, nel quale l’eroe è forte e sicuro. E’ stato definito il “Manifesto politico del Superuomo”. Esso contiene le nuove teorie dannunziane. L’eroe Claudio Cantelmo, sdegnoso della realtà borghese, vuole creare il Superuomo, futuro re di Roma e d’Italia e per questo cerca nuove energie nella putredine di un mondo in decadimento.
Tutti i protagonisti dannunziani restano sempre deboli e sconfitti, incapaci di tradurre le loro aspirazioni in azione. La decadenza, il disfacimento, la morte esercitano sempre su di essi un’irresistibile attrazione.
Anche “Il Fuoco”( manifesto artistico del Superuomo) conferma tale sorte.
L’eroe Stelio Effrena ( il nome che evoca al tempo stesso l’idea delle stelle e quella dell’energia senza freni, è evidentemente programmatico) medita una grande opera artistica, fusione di poesia, musica, danza, in un nuovo teatro nazionale. Anche qui forze oscure gli si oppongono, anche qui per mezzo di una donna. Il romanzo non si conclude con la realizzazione del progetto dell’eroe, ma doveva proseguire con un ciclo, ma ciò non accadde.
Dopo un periodo di interruzione, D. scrisse “ Forse che si, forse che no”, in cui il protagonista Paolo Tarsis, realizza la sua volontà eroica col volo aereo. In esso l’autore celebra la macchina, simbolo della realtà moderna. Ma alla sublimazione del superuomo si oppone ancora una volta la “Nemica”, una donna sensuale e perversa.
Tuttavia l’eroe trova un’inaspettata via di liberazione e riesce a salvarsi.

3.3                Le nuove forme narrative
Tutti questi romanzi, nella loro forma narrativa, si allontanano dal modello naturalistico, andando nella direzione del romanzo psicologico ( Il Trionfo della Morte). L’intreccio si fa scarso, il racconto è percorso da una forte trama di immagini simboliche. Nelle “Vergini delle Rocce” si alter
nano parti oratorie e parti simboliste-descrittive, sfumando nel mitico e favoloso, lontanissimo dalla realtà.
Nel “Fuoco” si alternano discussioni e meditazioni, analisi psicologiche; in “Forse che si, forse che no” prevale la dimensione simbolica.

4.       Le opere drammatiche
Per D. il teatro può essere un più potente mezzo di diffusione del verbo superomistico; ad esso si accostò anche grazie ad Eleonora Duse con la quale intrattenne una lunga relazione.
Egli rifiuta il teatro borghese e realistico per un teatro di poesia, che trasfiguri la realtà, riportando in vita l’antico spirito tragico e si regga su una trama simbolica. Molte delle sue opere attingono gli argomenti dalla storia (Francesca da Rimini), o dal mito classico ( Fedra), o nel presente ( La città morta)
In queste opere ricorre costantemente la tematica superomistica però avviene sempre la sconfitta dei superuomini a causa di una donna o della meschinità borghese.
A parte, rispetto ai drammi storici o moderni, si colloca “La Figlia di Iorio”, tragedia pastorale, in cui la vicenda è collocata in un Abruzzo fuori dal tempo, magico e superstizioso: vi è il gusto tipicamente decadente per il barbarico e per il primitivo.



5.       Le Laudi
Nel campo della lirica D. vuole affidare il compito di vate a 7 libri di “ Laudi del cielo del mare della terre e degli eroi”. Nel 1903 pubblica i primi tre ( Maia Elettra Alcyone), Un quarto Merope, nel 1912. Postumo è un quinto Asterope; gli ultimi due, anche se annunciati non furono scritti.
Maia non è una raccolta di liriche, ma un lungo poema di oltre 8000 versi. In essa D. adottò il verso libero; il carattere è profetico e vitalistico. Il poema è la trasfigurazione mitica di un viaggio in Grecia, realmente compiuta da D.
Il viaggio nell’Ellade è l’immersione in un passato mitico, alla ricerca di un vivere sublime: dopo di che il protagonista si reimmerge nella realtà moderna. Il mito classico vale a trasfigurare questo presente, riscattandolo dal suo squallore. Il passato modella su di sé il futuro da costruire. Per questo l’orrore della civiltà industriale si trasforma in nuova forza e bellezza equivalente a quella dell’Ellade . Per questo il poema diventa un inno alla modernità capitalistica ed industriale, alle nuove masse operaie, docile strumento nelle mani del superuomo.
Con Maia si assiste ad una svolta: nel mondo moderno D. scopre una segreta bellezza, un nuovo sublime, la forza travolgente ma grandiosa del capitalismo.
Il poeta non sia contrappone più alla realtà borghese moderna, ma la trasfigura in un’aura di mito. Dietro questa celebrazione però si intravede la paura e l’orrore del letterato umanista dinanzi alla realtà industriale. Il poeta si fa comunque cantore di questa realtà, anche se si sente da essa minacciato e diventa protagonista di miti oscurantisti e reazionari. 
Il D. autentico è proprio quello “decadente” nel senso più stretto del termine, quello che interpreta il senso della fine di un mondo e di una cultura, che tocca i temi della perplessità, del tormento interiore, che si avventura ad esplorare le zone più oscure della psiche, che vagheggia con nostalgia una bellezza del passato avvertita come mito irraggiungibile. Proprio nelle opere che propongono  l’ideologia del superuomo, la cosa più valida è il momento in cui riaffiora l’inquietudine, l’angoscia, l’attrazione per la dissoluzione e la morte.

Il secondo libro “Elettra” , è denso di propaganda politica diretta; esso ricalca la struttura ideologica di Maia: vi troviamo passato e futuro di gloria e bellezza in contrapposizione al presente. Parte del volume è costituito dai sonetti sulla “Città del Silenzio”, antiche città italiane, dense di passato, su cui si dovrà modellare il futuro. Costante è la celebrazione della romanità in chiave eroica.




Il terzo libro “Alcyone” in apparenza si distacca dagli altri due: al discorso politico, celebrativo si sostituisce  il tema lirico della fusione con la natura. E’ il diario ideale di una vacanza estiva, da primavera a settembre. La stagione estiva è vista come la più propizia a consentire la pienezza vitalistica.
Sul piano formale c’è una ricerca di una sottile musicalità e l’impiego di un linguaggio analogico, che si fonda su un gioco continuo di immagini corrispondenti. Alcyone è stata la più apprezzata dalla critica ed è stata definite poesia pura.
Ma l’esperienza panica del poeta non è altro che una manifestazione del superuomo: solo la sua parola magica può cogliere ed esprimere l’armonia segreta della natura, raggiungere e rivelare l’essenza misteriosa della cose.
Alcyone avrà una notevole influenza sulla lirica italiana del ‘900.



6.       Il periodo Notturno
Dopo “Forse che si, forse che no” D. abbandona il romanzo e crea un’opera che si avvicina alla novella: “La Leda senza cigno” (1913), è una nuova forma di prosa, una prosa lirica, evocativa. Dal 1913 in poi le prose saranno solo “liriche” e di “memoria”: “La contemplazione della morte”(1912), “Il Notturno”(1924), “Le faville del maglio”(1924-1928), “Il libro segreto”(1935).
Le opere, diverse tra loro, hanno tutte un taglio autobiografico, memoriale  e dal registro linguistico più misurato e meno pervaso da tensione oratoria. Per questo furono esaltate dalla critica che vi scorse un D. rinnovato, finalmente genuino e sincero: ricordi d’infanzia, sensazioni fuggevoli, confessioni soggettive, il pensiero della morte.
Anche la struttura è nuova: non più costruzioni complesse, ma il frammento: procedere per libere associazioni, un fondere presente e passato attraverso la memoria, un mescolare il ricordo alla fantasia.
Quest’ultimo periodo viene detto “notturno”, dall’opera “il Notturno” (1916), scritta in un periodo in cui D., a causa della cecità provocata da un distacco della retina, annota impressioni, visioni e ricordi, con uno stile secco e nervoso.
Queste prose tarde hanno una tendenza al frammentismo, ma allo stesso tempo, rivelano residui superomistici, nel narcisismo e nell’autocelebrazione.





GIOVANNI PASCOLI

LA VITA

Nasce a S.Mauro di Romagna nel 1855 ed entra nel collegio dei padri Scolopi a Urbino. E’ il quarto di otto fratelli e il padre è l’amministratore della tenuta “La Torre” dei principi Torlonia. Nel ’67 accade l’episodio che segna indelebilmente la sensibilità del piccolo Pascoli: viene assassinato il padre da ignoti, mentre ritorna a casa . Non si seppe mai chi fu l’assassino, ma il Pascoli crede di individuarlo nell’amministratore che successe a suo padre nell’amministrazione della tenuta dei Torlonia e nella sua poesia lo rappresenta come il “cuculo”, uccello che non si crea il suo nido, ma che occupa quello degli altri. L’anno seguente muore una sorella, poi, di seguito, la madre e due fratelli. La morte della madre viene considerata dal Pascoli la tragedia maggiore, perché viene meno il nucleo familiare, il “nido”. D’ora in poi il suo proposito sarà sempre di riformare il nido originario. Questa precoce esperienza di dolore e di morte sconvolge profondamente l’anima del Pascoli; rimane una ferita non chiusa, che si traduce in un senso sgomento del destino tragico e inesplicabile dell’uomo, e segna il crollo di un mondo d’innocenza e di infanzia serena a cui sempre il poeta aspirerà con immutata nostalgia. L’unico rimedio al male gli appare ora la pietà e l’amore fraterno fra gli uomini. Nello stesso tempo, nasce in lui l’ideale di ricostruire il proprio focolare domestico, con le due sorelle superstiti, Ida e Maria, di ritrovare così nella quiete appartata e nell’intimità degli affetti la pace. Muore nel 1912. Viene sepolto a Castelvecchio, in una casa di campagna che dal ’95 era stata il suo rifugio più caro insieme alle sorelle.Pascoli rappresenta la vera svolta della poesia italiana di fine secolo perché introduce tutta una serie di novità tematiche e stilistiche che influenzeranno i poeti di tutto il ‘900. Giustamente, quella di Pascoli è stata definita una “poesia verso il Novecento”.

LA POETICA

Il carattere dominante della poesia del Pascoli è costituito dall’evasione della realtà per rifugiarsi nel mondo dell’infanzia, un mondo rassicurante, dove l’individuo si sente isolato ma tranquillo rispetto ad una realtà che non capisce e quindi teme.
Il Pascoli esprime questa sua poetica in uno scritto del 1897 che intitola “Il fanciullino”. Egli afferma che in tutti noi c’è un fanciullo che durante l’infanzia fa sentire la sua voce, che si confonde con la nostra, mentre in età adulta la lotta per la vita impedisce di sentire la voce del fanciullo, per cui il momento veramente poetico è in definitiva quello dell’infanzia. Di fatti il fanciullo vede tutto per la prima volta, quindi con meraviglia; scopre la poesia che c’è nelle cose, queste stesse gli rivelano il loro sorriso, le loro lacrime, per cui il poeta non ha bisogno di creare nulla di nuovo, ma scopre quello che già c'è in natura. Il fanciullino è quello che parla alle bestie, agli alberi, alle nuvole e scopre le relazioni più ingegnose che vi sono tra le cose, ride e piange per ciò che sfugge ai nostri sensi, al nostro intelletto. L’atteggiamento del fanciullo gli permette di penetrare nel mistero della realtà, mistero colto non attraverso la logica, ma attraverso l’intuizione ed espresso con linguaggio non razionale ma fondato sull’analogia e sul simbolo. La poesia quindi può avere una grande utilità morale e sociale; il sentimento poetico che è in tutti gli uomini gli fa sentire fratelli nel comune dolore, pronti a deporre gli odi e le guerre. Da un lato egli concepisce la poesia come ispiratrice di amore umano, le assegna il compito di rendere gli uomini più buoni, ma il poeta non deve proporselo come fine, perché non è un oratore o un predicatore, ma ha unicamente il dono di pronunciare la parola nella quale tutti gli altri uomini si riconoscono. In definitiva il poeta è l’individuo abbastanza eccezionale che, pur essendo cresciuto, riesce ancora a dare voce al quel fanciullo che c’è in ogni uomo.L’evento centrale della sua vita, che diverrà poi materia poetica, è certamente l’uccisione del padre (di cui non fu mai trovato l’assassino) con la conseguente distruzione del, così chiamato da Pascoli “nido” familiare. A seguito di questa vicenda, la famiglia si sgretola perché anche la madre morirà di crepacuore, di lì a qualche anno, e il poeta perde quell’ambiente caldo e protettivo (da cui il nome di “nido”) che lo difendeva dalle insidie del mondo. Pascoli tentò di ricostruire il “nido” distrutto, insieme alle sorelle Ida e Maria, alle quali fu unito da un affetto morboso. Egli si ribella quando Ida si sposa, abbandonando lui e quel che restava del “nido”, e si lega con un legame ancora più forte ed esclusivo a Maria (che egli chiamava Mariù).

Il tema del “nido” costituisce uno dei veri motivi della poesia pascoliana: costantemente il poeta lo ricorda, lo rimpiange, tanto che il critico Giorgio Barberi Squarotti parla di una vera e propria regressione pascoliana verso lo stadio natale, o, meglio ancora, verso lo stadio prenatale, cioè di una regressione nel grembo materno; tornare a prima della vita vuol dire tornare a prima della storia, e dunque vivere al di fuori di quel mondo che era tanto intriso di violenza e che spaventava tanto Pascoli.
Il tema del “nido” appartiene in pieno alla poetica decadente, e precisamente a quel filone chiamato “dell’uomo senza qualità” che si contrappone ai miti dell’esteta e del super-uomo. Ma anche il “nido”, come l’esteta possiede una carica violenta, una decisa dimensione antisociale: se l’esteta disprezza il mondo borghese perché inferiore, Pascoli si rifugia nel “nido” dell’infanzia e rifiuta il mondo perché questo gli fa paura. La stessa funzione del “nido” viene svolta in Pascoli dalla campagna, che è ben diversa da quella verghiana percorsa dalla malaria, dalla dura fatica, dalle imprecazioni dei lavoratori; la campagna, in Pascoli, diventa il rifugio dalle tempeste della vita: gli alberi e le siepi frequentemente evocati nelle sue poesie rinchiudono il suo fazzoletto di terra e lo difendono dai pericoli del mondo (poetica della siepe). E’ stato notato, inoltre, come la campagna, intesa come luogo di protezione, possa essere interpretata anche come simbolo della patria.
Pascoli assunse, poi, nel corso della sua vita, delle posizioni ideologiche che appaiono in contrasto con il tema del “nido”, ma che in realtà risultano coerenti con esso, e sono precisamente il cosiddetto socialismo pascoliano e il suo tardo nazionalismo. Con un discorso pronunciato a Barga nel 1911, “La grande proletaria si è mossa”, egli prese posizione a favore della conquista coloniale della Libia, sostenendo che l’Italia, nazione povera e proletaria, aveva il diritto di conquistare terre dove mandare i suoi figli che morivano di fame, e nel mentre avrebbe anche portato civiltà in quei luoghi ancora rozzi. E’ interessante come Pascoli utilizzi in una nuova chiave il termine “proletario” (dice “Italia proletaria”) spostando la lotta di classe dagli uomini alle nazioni. Quanto al socialismo pascoliano, poi, esso è da intendersi non in chiave scientifico-politica, ma come umanitarismo, come desiderio di fratellanza universale. Tuttavia, sia il socialismo, sia il nazionalismo, non contrastano con il tema del “nido”, in quanto tali ideologie non fanno che ampliare la dimensione del nido dall’ambito familiare a quello della nazione, e più ancora a quello dell’intera umanità. Tutti gli uomini, insomma, dovrebbero vivere uniti, solidali, immuni dall’odio e dalla violenza.
Le opere del Pascoli
La prima raccolta del Pascoli uscì nel 1891 con 22 liriche con il nome di "Myricae". Questo nome, preso dalla 4° bucolica (componimento poetico spesso in forma di dialogo) di Virgilio. La raccolta si caratterizza dalla presenza di argomenti semplici e modesti, che spesso ricadono sul tema della famiglia e della vita campestre. Nelle opere del Pascoli il paesaggio assume un forte significato, evidenziando anche l'animo dello scrittore stesso. Le due poesie certamente più importanti di questa raccolta sono "X agosto" e "Lavandare".
La prima tratta della morte del padre, avvenuta proprio il 10 agosto dove il cielo, secondo il poeta, piange con le proprie stelle la morte di suo padre e la malvagità del mondo, atomo opaco del Male. In questa poesia è forte la presenza del focolare domestico, della famiglia e del nido famigliare.
La seconda invece è ambientata in novembre, mese caro al poeta in quanto presenta giorni nebbiosi avvolti nel mistero, in un'atmosfera quasi sospesa tra sogno e realtà e dove un aratro abbandonato in mezzo a un campo mezzo arato, assume il significato simbolico di chi, come la lavandara, ha perso l'affetto che dava un senso alla propria vita. E' chiaro che nella solitudine della donna il poeta riflette la propria.
D’altro canto lo stesso Pascoli era consapevole del rischio di una commozione eccessiva, tanto che nella prefazione a “Myricae” scrive che forse in quella raccolta c’era qualche lacrima di troppo, qualche singhiozzo che egli non era riuscito a frenare.Nelle opere successive a “Myricae” permangono gli stessi temi già individuati, che sono i ricordi assillanti dell’infanzia e lo smarrimento dinanzi al mistero. Con i “Poemetti” e i “Nuovi Poemetti”, Pascoli modifica in parte le proprie scelte stilistiche e si indirizza verso componimenti più ampi, nei quali passa in rassegna l’alternarsi delle stagioni in campagna, con le diverse attività svolte dai contadini. E’ logico che qui la campagna non può essere per lui un rifugio di quiete, ma è un luogo nel quale il poeta proietta le sue inquietudini, per cui le apparenze familiari si caricano di significati inquietanti, misteriosi, indecifrabili. La raccolta “I canti di Castelvecchio” (Castelvecchio era la località toscana in cui Pascoli aveva la casa) è quella più vicina a “Myricae” perché anch’essa è costituita da liriche brevi, tramate da frequenti ricordi familiari. C’è, in particolare, un nucleo di liriche, dal titolo “Ritorno a San Mauro”, che raccoglie i componimenti specificatamente dedicati al recupero familiare: il poeta tenta di rientrare nel mondo dell’infanzia ma ne viene respinto: il suo Eden è perduto per sempre.
L’ultima raccolta di rilievo sono “I poemi conviviali”, del 1904. Si tratta di poemetti in cui Pascoli rievoca figure celebri della classicità greco-romana, ma finisce per proiettare anche nel passato la stessa inquietudine del presente, per cui avviene che figure eroiche come Ulisse o Alessandro Magno divengano persone tormentate che si interrogano sul senso della vita (capovolgimento delle figure classiche).
Nelle opere successive, “Odi e Inni” ,Pascoli si atteggia a cantore delle glorie della patria, ma si inoltra per un sentiero estraneo alla poetica del fanciullino, che è quella per lui più autentica, e la poesia che ne risulta è densa di retorica e ha il solo valore di testimonianza culturale.
Da citare, poi, i numerosi “Poemetti latini” che gli permisero di vincere il primo premio al concorso di poesia in lingua latina ad Amsterdam.
Con Pascoli il verso si spezza in numerose pause, si dilata attraverso i molti enjambement, si carica di dolente musicalità. Frequentissimo è l’uso delle analogie e delle sinestesie implicite nella poetica del poeta-fanciullo che consce la realtà in modo ingenuo e irrazionale, scoprendo legami che la ragione non riesce a cogliere; frequenti sono anche le figure di suono: onomatopee e fonosimbolismi (i fonosimbolismi sono parole che non si limitano a riprodurre un suono della realtà, ma acquistano un valore autonomo, che diventa emblema del mistero angoscioso che circonda l’uomo).
Ricordiamo, a questo proposito, il celebre giudizio di Gianfranco Contini il quale parla di un triplice linguaggio pascoliano. Egli dice che Pascoli usa: 1) un linguaggio grammaticale, che è la lingua italiana normale; 2) un linguaggio pre-grammaticale, che è la lingua che viene prima della grammatica, quella costituita dalle onomatopee e dai fonosimbolismi; 3) un linguaggio post-grammaticale, quello che viene dopo la grammatica ed è costituito dalle lingue speciali, come i carmina o il dialetto della Garfagnana, la regione in cui si trova Castelvecchio.